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La camaleonta

di

Federica Mazzeo


Un qualsiasi locale notturno del centro. Luci soffuse, gialle, protette da paralumi rosa antico. Tavolini quadrati di legno scuro, volutamente grezzi, fintamente tarlati e screpolati. Una musica blues suadente, chiacchierio assonnato di poche persone intorno.
Lei da sola, in un angolo, i lunghi capelli dorati spettinati a ciocche morbide sugli zigomi, sulla fronte ampia. Ha un'espressione distratta, quasi indolente. Distrattamente gioca con un bicchiere da cocktail, lo fa roteare tra le lunghe dita smaltate, lo fa tintinnare sul posacenere di porcellana. Gli occhi, mai completamente aperti, sono di un grigio luminoso, bello con le ciglia bionde che lo corteggiano. Il naso è sottile, lungo, con le narici arcuate che le conferiscono un involontario segno di altezzosità. Le labbra perfette, rosse.
Il locale è freddo. Lei indossa un maglione di lana sottile, marrone, su una lunga gonna di lana stopposa. Una pesante collana d'argento antico con una grossa pietra di turchese che si adagia sull'ampia scollatura, si fa riscaldare dalla pelle chiarissima del seno.
Lui entra nel locale quasi di corsa, per ripararsi dal freddo umido delle strade. E' molto alto, ha un cappotto grigio lungo fino alle caviglie. Si guarda intorno. Trova un tavolo vuoto, il tavolo vicino alla donna. Si toglie il cappotto e si siede. Ha i capelli neri e lucidi, ancora più lucidi per le gocce di pioggia che li arricciano a ciuffi. Un viso aperto, sano, allegro, con lineamenti molto regolari. Nessuna imperfezione, nessuna particolarità. Soltanto gli occhi spiccano in modo particolare su quel volto: sono occhi scurissimi e rapidi. Non guarda la donna, guarda velocemente alcuni angoli del locale, si concentra sul bancone illuminato con i camerieri che prendono e lasciano le ordinazioni. Riesce a farsi vedere, ordina una birra, si rilassa. Lo sguardo diventa appena più lento, appena più diffuso. Vede la donna.

Hanno iniziato a parlare. Prima di cose generiche, del freddo. Del locale dove si trovano seduti. Non si sono chiesti perché quella notte sono tutti e due soli, in quel locale. Nessuno dei due fuma, scoprono di aver abitato vicino, di aver frequentato gli stessi posti. E' una coincidenza che li rende più spigliati, un filo sottile che si annoda in un'illusione di vicinanza. Lui parla fluidamente, ha un'abilità particolare nel raccontare aneddoti, un'espressività ampia, quasi teatrale. Sorride con le labbra tirate e tante piccole rughe alla base del naso e agli angoli degli occhi. Lei sa ascoltare. Segue con il suo sguardo lento i veloci gesti del suo interlocutore, accarezzandosi distrattamente i capelli dorati. Muove in modo curioso la testa: non solo in avanti, per annuire, ma anche lateralmente, come per cambiare prospettiva di fronte alle parole, per ascoltarle da punti differenti dello spazio. Ogni tanto resta assorta, con le labbra rosse appena socchiuse, come se improvvisamente avesse tirato in aria un bacio. La sua spigliatezza è morbida, lenta, sinuosa. La spigliatezza di lui, invece, è rapida, acuta, lucida come il suo sguardo di nocciola.
Restano cosÌ, chiacchierando a quel tavolo, per più di un'ora. Poi si lamentano del freddo e del fumo nel locale, con un accordo tacito escono ed iniziano a camminare vicini, nella strada notturna. Lui nota la camminata leggera di lei, impigliata nella gonna che le copre discretamente le gambe. Sente crescersi dentro un desiderio fortissimo di lei, della sua morbidezza distratta ed indolente, del suo corpo intravisto in mezzo ai vestiti. Rimane stupito di quell'immediatezza. Non è un uomo a cui le donne piacciono facilmente. Ma la bellezza di lei, quell'espressione austera sulle labbra rassicuranti, quell'andatura senza strappi, quello sguardo grigio, quasi soporoso, lo incantano. Si ammorbidisce, diventa quasi silenzioso, ascoltando il lieve scalpitio dei tacchi sull'asfalto irregolare. Non abita lontano da lÌ. Un'irrequietezza febbrile lo fa respirare con affanno, ispira ed espira grandi boccate di quell'aria fredda che dentro di lui si scioglie. Lancia occhiate sempre più rapide verso la figura che dolcemente gli cammina a fianco con la testa reclinata. I capelli biondi brillano e profumano nella luce dei lampioni. Sente di avere sempre meno tempo, e sempre più voglia di non lasciarla andare. Si avvicina un po' di più e ride nervosamente. Lei, guardandolo dal basso, lo ricambia con un sorriso timido e provocante. E lui improvvisamente, come se stesse scaricando un sacco troppo pesante, le chiede di passare un momento a casa sua, che è lÌ a due passi. Il sÌ della donna non ha suono.

La casa dell'uomo ha una luce molto chiara. Lampade da terra in ogni angolo e tutte le pareti bianche. Appena entrati, si tolgono i cappotti umidi di nebbia. Insieme al cappotto, si tolgono anche quel poco di coraggio che gli dava la strada buia e fredda. Sono improvvisamente soli e protetti da mura calde, improvvisamente intimi. L'essere sconosciuti, come un malinteso, una sottile pena tra di loro. Dalla cucina, che si intravede sul fondo, filtra un lontano odore di cose cotte, un odore stantio di fritto e di verdure inrancidite. Appena un indizio di vita vissuta, un indizio di lui che si introduce illecitamente tra di loro che attendono all'ingresso con i cappotti in mano e li mette vagamente in apprensione. Lui si scuote, si ricorda di fare gli onori di casa, bisbiglia qualcosa sulle piccole dimensioni dell'appartamento, le indica un appendiabiti di ferro battuto per posare la giacca. Lei muove piccoli passi sui tacchi alti, piano come se ci fosse un bimbo da non svegliare. Guarda le pareti con i pochi quadri astratti, il tavolo rotondo di ciliegio con le sedie impagliate, i divani di tessuto bianco davanti alla piccola libreria. A dispetto dell'agitazione di lui, si sente quasi a suo agio, la casa le piace, è accogliente. Facendosi avanti, sfiora le foglie carnose di una grande pianta di ficus, sfiora con lo sguardo i tetti illuminati dentro le finestre. Lui è accanto a lei, sorridendo in silenzio. E lei si volta, lo osserva seria, poi magicamente muove la mano libera dai guanti, libera dagli anelli e dai bracciali, libera dalle foglie, la mano bianca con il neo chiaro appena sotto l'anulare, la muove con una mossa lenta ed arcuata che si impiglia tra i capelli scuri di lui. E lui dimentica il sorriso che sta sforzando le labbra, dimentica le parole che stanno sforzando la bocca, e con un gesto rapido che si fa forza, che vince l'attrito della estraneità, la stringe a sÈ ed inizia a baciarla con furia.
Le bacia i capelli, la fronte, le guance, le tocca il collo, le spalle, cerca con le dita lo scollo della maglia, ne segue la trama di stoffa come un cieco. Sentono i loro respiri che si accavallano, quello di lui rotto, quasi rauco, quello di lei che si approfondisce, si fa cavernoso. Si cercano, si stringono, in piedi davanti al divano. Poi si guardano, non si capiscono. Non c'è tempo, non hanno tempo. Lui la prende per mano e la conduce nella stanza da letto.
Non ha acceso la luce. La stanza ha strisce di luna che filtrano a liste sottili dalle persiane. Il letto occupa quasi tutto lo spazio, non ci sono armadi, non ci sono mobili. Solo un arazzo enorme, che occupa gran parte della parete dietro la testata del letto, un arazzo di colori cupi e d'improvviso oro, con scene aggrovigliate di caccia.
Lui si siede ai piedi del letto, tenendole con forza i fianchi. Lei indietreggia di un passo, lo costringe a lasciare la presa. Lui inizia a sbottonarsi la camicia, la guarda fisso, uno sguardo sudato e penoso. Da lei, come un vapore molle, si libera una calma languida e meditativa. Snoda i piccoli bottoni della maglia, l'afferra con dita sottili, la sfila tirando appena indietro la testa. Si toglie la pesante collana di argento che oscilla nel vuoto. Poi si libera della gonna, delle calze, della biancheria, ogni cosa con lievi sussulti delle anche e delle ginocchia, come un'onda che si diffonde, che avanza in silenzio verso la riva. Nuda, risorge.
Lui, seduto sul letto, senza camicia, ancora, la guarda.
Guarda i floridi seni ondeggianti, appena più ampio quello sinistro, appena arrossata la pelle chiarissima dello sterno.
Guarda l'addome perfetto, lungo e ammorbidito intorno all'ombelico, i fianchi tondi come il ventre di un'urna.
Guarda la linea ondulata delle gambe, l'ombra quasi impercettibile delle ginocchia.
Guarda rapidamente le morbide spalle senza angoli, la segreta corrispondenza di una perfetta proporzione.
E poi guarda il collo sottile sotto la conca spianata del mento sollevato, e lÌ trova il ritmico tendersi della pelle, le vene azzurre che si offrono ad essere prese, il pulsare segreto di quel corpo straordinario.
E poi più niente, non guarda più niente, non vede più niente, è rapito da una furia accecante, la afferra, la spinge sul letto, finisce di svestirsi, inizia, confusamente, convulsamente, a toccare, ad annusare, a baciare, a leccare, a mordere, spalle, tempie, seni, fianchi, gomiti, ginocchia, capelli.
E poi finalmente, sfinito di desiderio, con una nausea amara nella gola, è dentro di lei.
Lei, l'immobile, lei, la silenziosa.
E' dentro di lei. E improvvisamente si sente intorpidito, invaso da una strana febbre che lo stordisce. Desidera quel corpo come non aveva mai desiderato un corpo in tutta la sua vita. Dovrebbe muoversi, avverte ancora un impeto implacabile dentro di sé, ma è come se fosse spinto lontano, in una stanza remota di cui non riesce a trovare l'accesso. Stupito, quasi insensibile, di nuovo, la guarda.
Il viso largo, che sembra in fuga, una contrazione segreta sotto la pelle delle guance, le narici tese a prendere e lasciare aria, la bocca rigida, con il labbro superiore leggermente sollevato sui denti bianchi, gli occhi ñ improvvisamente spalancati, non più grigi, ma d'un colore impensabile, un'ambra lucida con i depositi di antichi insetti e foglie che si oscurano sul fondo.
Lei si muove, contrasta il peso dell'uomo, senza staccarsene, si volta, è sopra di lui. Lui sta con le spalle premute contro la spalliera del letto, la lana stopposa dell'arazzo a pungergli dolorosamente il collo dietro l'attaccatura degli orecchi. Non riesce a chiudere gli occhi, non riesce a smettere di fissarla. La fissa in modo allucinato, senza volume, come se gli fosse stato strappato un velo fumoso davanti agli occhi e la vedesse ora stagliarsi monolitica contro un fondo invisibile. Non c'è più stanza, non c'È la parete di fronte, non ci sono dimensioni oltre quell'alto corpo troneggiante che lo sovrasta e lo domina. Vede gli ampi seni carnosi che gli ondeggiano davanti, attraverso il movimento incessante della donna gli si avvicinano al viso, gli coprono la fronte ñ li sente bruciare sugli occhi, sul naso, li sente rubargli l'aria, cosÌ pesanti e immensi che non può contenerli. Chiude la bocca che prima aveva avuto fame e sete, cerca di voltare il viso ma non lo fa, è intorpidito, rallentato, è tutto negli occhi spalancati che si iniettano appena di sangue e guarda, incessantemente, guarda senza capire, con un senso di ripugnanza che gli si strozza in gola, con il vago sentore delle braccia e delle gambe che perdono forza, con il dolore acuto del sesso imprigionato dentro il ventre caldo della donna.
Di lei, il suono profondissimo del respiro musicato dal movimento implacabile del corpo, senza strappi, senza fine. Ogni rotondità del suo corpo trova uno spazio vuoto nel corpo dell'uomo, lo riempie, lo satura. Solo la testa resta libera, la testa che ondeggia e suda il piacere segreto dal quale è posseduta. Le mani scivolano vischiosamente sul petto dell'uomo, si aggrappano agli omeri, premono sulle clavicole e nella cavità delle ascelle, cancellano ogni asperità della superficie, la ricacciano indietro in uno spazio piatto, indifferenziato. La preda giace in un rantolo lontano, l'animale mostruoso dell'arazzo lo ha avvolto, si prepara eccitato alla consumazione. E piano, nel vapore dello stordimento, l'uomo segue la trasformazione. La donna si fa verde, si ispessisce, i capelli diventano steppi di rame, la pupilla una striscia verticale che taglia l'iride sempre più giallo. La bocca aperta lascia brillare in aria i denti forti e acuminati, una saliva bianca e schiumosa inumidisce voluttuosamente le labbra. Poi l'uomo sente il curioso contatto delle punte fredde e regolari sulla febbre della sua spalla destra e dopo ancora il dolore, un dolore impensabile, lo strappo netto della carne, sveglio, vivo, viva la carne sfilacciata che viene voracemente masticata, vivo il terrore impotente degli occhi che non si possono chiudere, che si vedono lacerato, fatto a pezzi, mangiato. Il dolore, pensa l'uomo in un lampo, appartiene stranamente più agli occhi che alla spalla. E sa che il dolore non sarà mai cosÌ forte quanto la paura imbavagliata che gli stringe le viscere e gli pulsa follemente all'inguine, nel collo, sotto le palpebre spalancate.
Del boccone resta solo un rivolo brillante di rosso sul mento della donna. E lei si avvicina di nuovo, annusa convulsamente il petto dell'uomo, scende lungo i fianchi, si raggomitola su se stessa senza allentare la saldezza della sua presa, rapita dall'incanto del pasto, rapita dal tempo che riempie quell'esistenza prima della fine. Guidata da un'antica sapienza sa la mappa precisa della preda, sa esattamente dove mordere, cosa prendere, e quando. Addenta la carne bianca della coscia, con il volto sprofondato nei muscoli scoperti, senza fretta, si riempie del calore di lui, delle sue fibre segrete, fino a raggiungere il luccicare d'avorio delle ossa. Si preoccupa di lasciarle brillare pulite, di liberarle nella loro pura essenza calcinosa.
E lui segue. Con una lucidità che è oltre il dolore, annusa la ruggine del suo sangue, osserva la potenza della donna che si accresce lentamente ad ogni morso, la sente gorgogliare di intimo piacere sopra di sé. Con una lucidità che è oltre il dolore si accorge di una piccola presenza accovacciata accanto al terrore, la vede gonfiarsi come una molle pasta di lievito ma non vuole riconoscerla, con uno sforzo sovrumano cancella l'immagine, cerca di soffocarla, si concentra completamente sul pasto, sul carnefice. E lei continua, più lenta, più calma, ipnotizzata dal possesso profondo di quel corpo, quasi sazia di quella intima assunzione, piena di desiderio appagato. Risale sul petto, strisciando con estasi il viso arrossato di sangue nella conca sotto il torace, vede con occhi futuri le viscere mute di lui, ancora lontane, e la voglia immensa di mangiare ciò che lui ha mangiato, ciò che lo ha fatto crescere, che lo ha nutrito e riscaldato. Adesso il dono, senza lotta, disponibile. E mentre lei si inabissa e si appropria lui improvvisamente è costretto a riconoscerla. Quella presenza che gli è cresciuta dentro, che sta gridando per conquistarsi la luce, per essere vista. Ormai troppo grande, ormai troppo luminosa, ormai implacabile.
Il piacere. Profondo e immenso e senza colpa, il piacere.
Il piacere, sÌ, il piacere! La gioia in spasimi insopportabili, pura, una lunga luce torva che lo acceca. E l'uomo comprende con tutto se stesso, sa oltre se stesso di aver desiderato quel terribile, mostruoso pasto per tutta la vita. Sa di averlo spiato di nascosto, di averlo simulato in piccole porzioni innocue nella sua piccola cucina, sa di averlo appeso malignamente al muro sopra il letto perché gli concedesse nei sogni quello che doveva aborrire di giorno. Protetto dalla sua falsa incoscienza per tutta la vita! Ed ora la realizzazione. Vorrebbe ridere di quel tremendo potere, ridere per poter finalmente cedere alla Natura tutto, e che si riappropriasse di tutto, l'immenso ventre della Madre. Ed il terrore, ed il desiderio, non disgiunti, saldamente stretti per mano. Fusi e di nuovo separati, danzanti, nel grande palcoscenico davanti a lui, sopra il letto, sopra e sotto la terra. E lei, sprofondata in lui, non disgiunta, fusa e poi di nuovo separata, ma dentro di lui e lui dentro di lei.
Il cuore. La rossa polpa del cuore che batte allo scoperto. Tutto ciò che contiene veramente, il sentimento, l'ardore. Il filo sottile che significa l'esistenza.
La principessa chiede all'innamorato il cuore come pegno del suo eterno amore. L'innamorato lo strappa dal petto e glielo dona.
Ma sarà lei ora a prenderlo dal petto. Senza tramiti, perché il dono è già totale, è già donato, completamente. E l'uomo sa che non si opporrà, che non vorrà protestare. Di più, sa che sta per compiersi il momento più bello, il momento più terribile, il dissolversi dolce, come un fluido lento, la lenta immobilità, l'immobilità accolta, riscaldata, cullata come un neonato. Ti amo, immensamente. Ti amo. Immensamente.
E allora la donna lo prende. Con cura, lentamente. Lo mastica nella bocca calda, mastica quel tessuto soffice e inebriante, lo sente pulsare sul palato bagnato sempre più flebilmente, sente la risonanza misteriosa della vita diffondersi in tutte le sue membra, dandole la pace. Il respiro si fa più leggero, quasi scompare.
E poi il silenzio. Un silenzio più profondo del silenzio stellare. Il suono del riposo, immenso. Dissolte tutte le tensioni. Dissolto ogni movimento. La donna si china con gli occhi chiusi. Espansa, molle, umida, oscura. Vive ancora d'infinita soddisfazione, d'infinito amore. E resta cosÌ, per un tempo lunghissimo e incosciente, nel vapore estenuato del corpo. Fino ad una luce improvvisa, fino ad un ricordo improvviso. Apre le palpebre pesanti, risollevandosi un poco, guarda in basso, osserva come in sogno ciò che è rimasto dell'uomo. La testa. Una teste muta, tonda, con le grandi orbite degli occhi spalancate, senza espressione. Una testa morta.
E improvvisamente non sa, non riesce a fiutare, non riesce a seguire la mappa della sua ancestrale sapienza. Continua a fissare quella testa incredibile nel vapore del sogno, continua a fissarla stupita, senza saper decidere se prenderla o no.

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