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Zenzero, il serpente e la luna

di

Daniela Berni

 

Un commento di Massimo Mongai:

Daniela berni ha molti meriti, fra i quali, permettetemi di essere partigiano, non ultimo il fatto di essere mia mglie.Ma non è per questo che questo racconto è qui; il motivo vero è che è finito 9° al Premio Courmayeur 1994 (quando io sono finito 6°).Sempre su 240 concorrenti.Anche questo non dovrebbe essere qui perché come quello che ho scritto con Tiziana è border-line fra fantasy e fantascienza.

Giudicate voi.

Massimo Mongai

 

Quella mattina ero andata alla radura da sola.
Theodore era rimasto al castello alle prese con il suo severissimo precettore ed io ne avevo approfittato per svignarmela in quel posto appartato, dove ero sicura di non incontrare nessuno.
Io ero la governante di Theodore, primo figlio del mio signore Hervèe di Villiers.
A quell'epoca era un bambino gracile, di natura dolce e malinconica, con dei grandi occhi neri e tristi, che si illuminavano solo al racconto di qualche storia fantastica o mentre era con me, in giro per la campagna. Stavamo quasi sempre insieme, salvo quando studiava. Allora mi dedicavo alle mie faccende.
Quel giorno dovevo provare il mio nuovo arco. Mio padre il Cavalier d'Aulon, detto da tutti (spesso anche da me) Mouton per il suo carattere ostinato, l'aveva fabbricato con le sue mani.
Me lo aveva regalato la sera prima, con una luce divertita negli occhi, raccomandandosi di non farmi vedere troppo in giro con quell'arnese. Da vecchio soldato di ventura, infatti, era orgoglioso della mia innata bravura con le armi, ma si rendeva conto che il saper centrare un bersaglio a trenta metri non era precisamente una delle doti più apprezzate in una fanciulla di sedici anni. La mia educazione dipendeva solo da lui, visto che la mia povera mamma era morta più di dieci anni prima, e perciò mi aveva addestrato fin da piccola come se fossi stata un ragazzo, illuminandosi ad ogni mio progresso, ma facendo anche in modo che non si sapesse troppo in giro.
Malgrado queste precauzioni, però, qualcosa era trapelato fra la gente del castello: "Yvette - mi gridavano i ragazzi, sganasciandosi dalle risate e dandosi grandi pacche sulle spalle, mentre stendevo il bucato o mungevo la vacca - perchè non vieni nel fienile con me? Ti devo far vedere un bell'arco, testa rossa, ci ho infilzato un sacco di fagianelle!"
Stupidi fannulloni! Ma bastava poco per farli smettere: l'apparizione dell'enorme mole di Mouton per esempio, o, molto più spesso, la dimostrazione privata al più spaccone del gruppo di quanto fossi brava non solo con l'arco ma anche col bastone.
Tentai alcuni tiri. Avevo tempo per continuare a provare; le lezioni a Theodore sarebbero durate tutta la mattina e Mouton, partito all'alba per andare in città a trattare alcuni affari per conto del signore di Villiers, sarebbe tornato solo al tramonto.
Ad un tratto sentii delle grida. Erano urla di gente atterrita. Pensando ad un attacco di una banda di briganti, purtroppo non infrequente a quei tempi, corsi a perdifiato verso il castello e arrivai al limite del bosco, che lo fronteggiava da una collinetta. Mi nascosi dietro un cespuglio.
Proprio a pochi passi da me, la mia amica Violette, la figlia dello stalliere, fuggiva, urlando di terrore. Inciampò e cadde. Una grande creatura alata le si avventò sopra. La ragazza si dibatteva, ma la creatura le stava addosso con tutto il suo peso. La tenne ferma e con una mano dagli orribili artigli le squarciò prima il petto, poi la gola. Violette, come un agnello sgozzato, ebbe qualche tremito, poi giacque scomposta in un lago di sangue.
La creatura rimase accovacciata accanto al corpo della ragazza, vicino al mio cespuglio.
La vidi bene. Sembrava un uomo, anche se ero certa che fosse un demone. Era nudo, macchiato di sangue, tutta la testa e le spalle erano coperte da uno spesso strato gibboso di pelle squamosa e viscida che finiva in una gobba sulla schiena e si assottigliava nelle ali membranose. Il resto del corpo invece, a parte le lunghe unghie acuminate, aveva un'apparenza del tutto umana.
Rimase per qualche secondo immobile, ansante, con un'espressione da folle e, dopo un momento, riprese il volo.
Altre creature volteggiavano intorno al castello e, dalle urla che si sentivano provenire dal torrione e dal cortile, altre ancora erano dentro.
Theodore!
Cercai disperatamente di pensare a ciò che potevo tentare per salvarlo, ma un cieco terrore mi paralizzava. Rimasi accovacciata nel folto del cespuglio, con la testa stretta fra le mani e gli occhi chiusi, tremando come una foglia.
Dopo un'eternità le grida cessarono ed io mi azzardai a guardare fuori con cautela. I demoni avevano finito il loro abominevole lavoro e stavano volando via. Ne contai più di cinquanta. Ad un tratto mi accorsi che uno di loro stringeva fra le braccia un corpo piccolo, minuto; non ebbi difficoltà a riconoscere il mio Theodore. Piangeva e si dibatteva, quindi era ancora vivo.
Volarono verso ovest, ed il silenzio che scese sul castello mi parve più spaventoso ed opprimente delle urla di poco prima.
Corsi giù ed entrai nel cortile. Quello che vidi fu l'orrore più puro. Non avevano risparmiato nessuno: c'erano solo corpi dilaniati e fatti a pezzi. Ed un terribile odore di sangue.
Mi fermai accanto al cadavere straziato del Signore di Villiers. Era caduto combattendo, con la spada in mano. Aveva uno squarcio che andava dalla gola fino all'addome ed un lungo pugnale conficcato in bocca.
Persi i sensi, proprio come una di quelle smorfiosette che detesto.
Riaprii gli occhi fra le braccia di mio padre: "Yvette, che è successo? Sei ferita?"
"I demoni, padre, i demoni hanno ucciso tutti..."
"Che dici, sei impazzita? Chi ha fatto questo macello, porc..."
Gli raccontai tutto, sicura che non mi avrebbe mai creduta. Invece, quando ebbi finito, mi disse:
"Ero certo che sarebbe capitata qualcosa del genere, prima o poi..."
Mi accorsi che teneva fra le mani il pugnale d'oro che avevo visto conficcato nella bocca spalancata di Hervè di Villiers. Era un'arma raffinatissima e molto preziosa: d'oro, l'elsa rappresentava un serpente che chiudeva nelle sue spire una falce di luna.
Lo fissò a lungo. "Il serpente e la luna...Dopo tutti questi anni...Ci ha trovato, quel demonio!"
"Allora sai chi è stato! - mi alzai a sedere - Padre, hanno portato via Theodore! Era vivo! Io, io... Non ho saputo fare altro che rimanere nascosta a tremare come una stupida gallina!"
Tutta la mia tensione si sciolse all'improvviso in un pianto accorato. Mouton mi prese tra le braccia: "Cosa potevi fare, ragiona! Cosa poteva fare una fanciulla come te contro le forze diaboliche di quell'uomo!"
"Chi è?"
"Non posso dirti niente, ora. Dobbiamo andare subito via, potrebbero tornare."
"E Theodore?"
"Ci penseremo...Prima dobbiamo andare al convento di Cressy."
Balzai in piedi: "Ma padre! Theodore è in pericolo, potrebbero averlo già ucciso! Non possiamo perdere tempo! Se sai dove l'hanno portato, dobbiamo andare a liberarlo! Subito!"
Lui era già salito sul suo cavallo e mi porgeva le redini del mio: "Prima a Cressy. Monta, Zenzero."
Sentire quel nomignolo affettuoso e domestico, che mio padre mi aveva dato a causa dei miei capelli rossi, mi calmò. Obbedii.
Il sole stava tramontando quando lasciammo il castello di Villiers, con tutte le sue vittime insepolte.
Cavalcammo per tutta la notte. Ero sfinita, ma non dissi una parola. Era quello che Mouton si aspettava da me ed io non volevo deluderlo.
Mi domandavo solo come avrebbero fatto a staccare il mio cadavere dal cavallo, poichè i muscoli delle gambe erano irrigiditi tanto da sembrare di legno. D'altra parte anche il cavallo sembrava stanchissimo e doveva averne per poco.
"Ci seppelliranno insieme - pensavo - Dovranno scavare due giorni per fare una fossa abbastanza grande."
Mentre formulavo varie ipotesi sulla grandezza della tomba, vidi la torre campanaria del Monastero di Cressy che si stagliava contro il cielo color zaffiro: l'alba era vicina. Mi resi conto che non solo non ero morta ma che avevo anche una gran fame, sintomo indubbio di buona salute.
Mio padre smontò ed andò a bussare al portone del monastero. Parlò con la suora che aveva aperto lo spioncino. Intanto io stavo cercando di scendere da cavallo e di recuperare l'uso delle gambe. Lo sforzo richiedeva un'estrema concentrazione; per fortuna il cavallo collaborava, rimanendo immobile.
Dopo qualche secondo, Mouton mi si avvicinò di nuovo: "Entriamo. La suora ti darà qualcosa da mangiare. Io devo parlare con una persona. Aspettami e tieni la bocca chiusa su quanto è successo, chiaro?"
Annuii, e davvero non mi costò una gran fatica mantenere la mia promessa. Dopo aver mangiato un'enorme quantità di pane e latte, infatti, crollai addormentata sul tavolo della grande cucina del monastero.
Mi risvegliai, o meglio, ripresi i sensi che il sole era già alto. Ero in una celletta, su un povero pagliericcio. Subito sentii il dolore dei muscoli indolenziti. Gemetti piano.
"Stai male, Yvette? Bevi questo e ti sentirai subito meglio..."
La donna mi porgeva una tazza con un liquido biancastro dall'odore nauseante.
Non era una suora, dagli abiti sembrava una contadina, forse una fantesca adibita al servizio nel convento. Era ancora giovane, non poteva avere più di trent'anni, ma i capelli neri erano striati qua e là di bianco. Aveva un'aria familiare, e non riuscivo a capire dove l'avevo già vista. Annusai l'orribile intruglio e scossi la testa:
"No, grazie, sto bene."
Cercai di alzarmi il più disinvoltamente possibile, ma ripiombai sul pagliericcio con una smorfia di dolore.
Udii un risolino: "Bevi, Yvette, dammi retta."
Mi porse di nuovo la tazza ed io bevvi. Era la cosa più amara che avessi mai assaggiato. Con un brivido, le restituii la tazza vuota: "G-grazie. Dov'è mio padre?"
"Tornerà fra non molto. Ha detto di riposarti, perchè avrete ancora molto cammino da fare."
"Ma io potevo accompagnarlo! Mi doveva svegliare! Non..."
Fu allora che fui certa di essere stata avvelenata.
Una morsa gelida nella pancia mi tolse il respiro, poi, subito dopo, un torrente di fuoco mi percorse il corpo. Mi piegai in due e deglutii nel disperato tentativo di ricacciare indietro lo stomaco che invece voleva a tutti i costi uscire a ballare sul pavimento.
Guardai la donna con occhi accusatori.
Lei disse placidamente: "Sì. La reazione è un po' fastidiosa...Ma durerà poco. Ora devo andare, ho anch'io molte cose da fare. Riposati."
Dopo qualche minuto tutto passò all'improvviso come era cominciato. Poi iniziò il paradiso. I dolori ai muscoli cessarono e io mi sentii bene come non mi ero mai sentita, leggera come una piuma. E come una piuma mi adagiai mollemente sul letto e mi riaddormentai.
Quando giunse mio padre, qualche ora dopo, mi svegliò e mi ordinò di prepararmi. Aveva portato degli abiti maschili. Mi affrettai a vestirmi e corsi giù in cortile, dove mi aveva detto di raggiungerlo. Vidi che i cavalli erano tre.
"Dove sei andato, padre? E chi portiamo con noi? Non una suora, spero, una donna sarebbe un peso morto, e noi dobbiamo..."
Mi fulminò con lo sguardo. Un individuo incappucciato si avvicinò a noi e montò sul terzo cavallo. Portava una spada al fianco. Controllai se lo scudo, legato alla sella, recasse qualche insegna, ma rimasi delusa: era completamente bianco.
Nessuno disse una parola. Usciti dal monastero, prendemmo la strada che andava a nord.
Non resistetti a lungo:
"Dove stiamo and..."
"A Lisieux, Zenzero. - mi prevenne Mouton - Ora basta domande."
Il tono non ammetteva repliche. E io non parlai più.
Al tramonto ci accampammo vicino ad un ruscello. Il cavaliere, smontato da cavallo, mi si avvicinò. Estrasse da una bisaccia due foglie secche e me le porse: "Per i tuoi muscoli, Zenzero."
La voce dell'avvelenatrice! Presi le foglie meccanicamente.
"Le devi mettere in bocca e poi masticare a lungo." disse la donna, abbassando il cappuccio e mostrandomi la sua faccia fresca da contadina.
Sentivo già quell'orribile odore. Gliele rimisi nella bisaccia. "No, grazie, stavolta non sopravviverei. E poi mi sto abituando alle sofferenze."
Mio padre fece un risolino: "Anche a me hanno sempre ripugnato i tuoi medicamenti, amica mia..." e cominciò ad accendere il fuoco.
La donna alzò le spalle.
"Peggio per voi, e non accendere fuochi, Mouton. E' più prudente..."
Fu a questo punto, devo confessarlo, che ebbi una specie di crisi isterica.
"Mi volete dire, accidenti, cosa sta succedendo? Perchè sono due giorni che sto a cavallo? Perchè una fantesca all'improvviso si veste da cavaliere e dà ordini a mio padre? E perchè non dovremmo accendere quel maledetto fuoco?"
"E' meglio parlarle, Mouton." - disse la donna con voce decisa a mio padre.
Ci sedemmo ai piedi di un albero. Mi guardò gravemente, senza sorridere: "Dobbiamo affrontare un nemico molto potente, Zenzero, e avremo bisogno di tutte le nostre forze. Io l'ho incontrato molti anni fa e ...mi ha sconfitto. - sorrise con amarezza - Ora ha trovato mio figlio..."
Mi resi conto improvvisamente del perchè il suo viso mi fosse tanto familiare: gli occhi erano quelli di...
"Theodore!" mormorai.
La donna si passò una mano sulla fronte, con aria stanca: "Sì...Theodore. - riprese - Hervèe di Villiers e la sua sposa ne ebbero cura come se fosse stato loro, mentre io...io mi nascondevo. - poi aggiunse, come fra sè e sè - Da perfetta vigliacca..."
Mio padre, che finora era stato a capo chino, alzò lo sguardo di scatto: "Non è vero...Non tu..." protestò.
Ma la donna alzò una mano, come per fermarlo.
"Lascia perdere, Mouton... - si rivolse ancora a me - Stiamo andando a riprendere Theodore, Zenzero. Se non ci riusciamo sarà condannato a qualcosa peggiore di mille morti. - scosse la testa - Non abbiamo molte probabilità. Ma dobbiamo tentare, non solo per il bene di Theodore ma per tutta l'umanità. Quell'uomo..."
"Voglio sapere chi è." la interruppi.
La vidi esitare. Guardò mio padre, che, a sua volta la fissava. Poi di nuovo rivolta a me: "Il vescovo di Lisieux"
"Un uomo di chiesa? - gridai scandalizzata - Ma siete sicuri?"
"Sì - confermò mio padre - Il demonio, a volte, si nasconde sotto strane vesti. E quell'uomo è l'incarnazione del male."
La donna mi afferrò per le spalle: "Zenzero, la nostra vita non vale un centesimo. Quell'uomo e le sue schiere diaboliche sono contro di noi. Ha spie dappertutto, e forze immonde lo servono. Probabilmente sa già dove siamo e cosa vogliamo fare. Farà di tutto per impedircelo. E come hai già visto, le sue risorse sono molte, e terribili."
"Come ti chiami?" le chiesi.
La donna si rivolse a mio padre: "Ti somiglia sai, Mouton? E' un'incosciente proprio come te..."
Poi mi guardò di nuovo e sorrise: "Jeannette."
Un rumore fra i cespugli ci fece sobbalzare. Saltammo in piedi tutti e tre di scatto, pronti a combattere.
Ma era solo un ragazzo gobbo e male in arnese. Ci veniva incontro sorridendo, con un sacco sulle spalle.
Poichè era muto, fece dei gran gesti per farsi capire. Ci spiegò che voleva accamparsi con noi per la notte, perchè non se la sentiva di dormire da solo. Capimmo anche che aveva molta fame e mio padre gli dette un pezzo di pane e formaggio, su cui si gettò come se non mangiasse da giorni.
Dopo aver mangiato anche noi qualcosa, ci sdraiammo avvolti nei mantelli. A Mouton toccò il primo turno di guardia.
Proprio mentre stavo per addormentarmi, mi accorsi che il ragazzo, che stava immobile contro il suo sacco come se dormisse profondamente, era invece ancora sveglio e mi stava fissando con uno strano sguardo febbrile. Non mi piacque.
Fui risvegliata, dopo non più di un'ora, da un grido soffocato. Balzai in piedi, guardandomi intorno. Jeannette era già accanto a me, aveva in mano un lungo pugnale e la sua bisaccia a tracolla.
La luce della luna illuminava la radura. Non c'era traccia nè del ragazzo nè di mio padre.
"Cos'è stato...? Mouton!" chiamò Jeannette. Ma non rispose nessuno.
"Padre! Dove sei?" chiamai a mia volta.
Notai la giubba del gobbo ed il suo sacco, abbandonati accanto ad un albero, e sentii uno strano rumore vischioso. Mi avvicinai: il sacco si muoveva, come se all'interno ci fosse qualcosa di vivo.
"Jeannette, presto, vieni qui!" gridai. Jeannette mi raggiunse.
"Che c'è?" - chiese. Sentimmo uno schiocco. La sottile striscia di cuoio che teneva legata l'imboccatura del sacco si era spezzata e una massa immonda si stava riversando fuori. Erano grossi vermi grigiasti, centinaia, che si muovevano come se fossero un organismo unico, attorcigliandosi su se stessi.
"Quel ragazzo...In un attimo è sparito, come se si fosse dissolto nell'aria. Maledizione, cos'è questa roba?"
Mouton era riemerso dall'oscurità ed ora stava impietrito a guardare anche lui quell'orrido insieme pullulante.
"Guardate!"
I vermi stavano subendo una orribile metamorfosi. Sotto la pallida luce lunare si stavano trasformando in omuncoli mostruosi, non più grandi di una mano. Erano glabri, biancastri, i lineamenti rozzamente abbozzati, salvo le grandi bocche dentate.
Quelli che per primi avevano completato la loro mutazione iniziarono a zampettare verso di noi. Si muovevano velocissimi e feroci. Ma soprattutto erano una legione sterminata.
Il primo ad essere assalito fu mio padre. Decine di quei mostricciattoli, con rauche urla, gli salirono su per le gambe. Lui cercò di scrollarseli di dosso, dando delle grandi manate, afferrandoli a tre alla volta e rigettandoli a terra, ma erano troppi. E sembravano molto affamati.
Mi slanciai verso di lui, per tentare di aiutarlo. Ma Jeannette mi trattenne. Mi mise in mano una grossa pietra tonda e piatta come un ciottolo di fiume, che aveva preso dalla sua bisaccia. Lei ne aveva una uguale: "Usa questa, Zenzero, presto! Guarda..."
Vidi che la impugnava e la orientava verso la luna. La pietra cominciò ad illuminarsi ed in pochi secondi divenne bianca e luminosa come la luna stessa, gettando dei fasci di luce accecanti. Jeannette li orientò verso gli omuncoli che, appena venivano toccati dalla luce argentea, si dissolvevano in una nuvola acre di vapore. Feci altrettanto e orientai i raggi luminosi verso mio padre che ormai giaceva a terra, coperto da un nugolo di mostricciattoli. Furono spazzati via in pochi secondi e io mi avvicinai a lui. Mi resi conto con un'occhiata che stava perdendo sangue, ma non avevo il tempo di prestargli soccorso, dovevo continuare il mio lavoro.
Io e Jeannette stavamo spalla contro spalla, facendo scudo a mio padre a terra, e continuavamo a orientare la luce verso gli omuncoli che si erano fatti più guardinghi e che ora si nascondevano dietro i cespugli, cercando di coglierci di sorpresa.
In quel momento alzai gli occhi al cielo.
Vidi l'ombra di un demone alato che ci stava piombando addosso ed una grande nuvola che stava per nascondere la luna.
"Guarda in alto, Jeannette!" urlai. Lei alzò lo sguardo e capì.
"Colpiscilo!" gridò.
Orientai la mia pietra verso il demone. Un raggio luminoso lo toccò e lui cadde a terra, con un grido, proprio ai nostri piedi. Prima che la luna si oscurasse, feci in tempo a cogliere lo sguardo terrorizzato del ragazzo gobbo.
Quando la luce della luna sparì, anche le nostre pietre si spensero e un orribile scalpiccìo mi avvertì che ci restava poco da vivere.
"Jeannette!" - urlai disperatamente. Mi secca dirlo, ma non intendevo affatto aspettare la morte con fermezza e dignità. Solo il pensiero di mio padre mi tratteneva da un'indecorosa fuga.
"Jeannette!" - urlai di nuovo.
"Sono qui, Zenzero..." - la voce di Jeannette mi rispose con un sussurro affannato. Mi resi conto che era china a terra. Tracciava un cerchio attorno a noi col suo pugnale e, a poco a poco, dal solco salì una strana luminosità. Gli omuncoli che erano ormai a pochi centimentri dal cerchio, si fermarono alla vista della luce, digrignando i denti.
La luminosità diventava sempre più forte e creava attorno a noi una specie di barriera sfolgorante. Guardai Jeannette. Era ferma, concentrata, ad occhi chiusi.
"Aiutatemi - mormorava - Aiutatemi, Bianche Potenze...Tornate dal Guardiano..."
Fu allora che accadde. Era un suono basso, vibrante, che pareva sgorgare dalle viscere della terra e contemporaneamente dal sommo del cielo. Le vibrazioni si ripercuotevano all'interno del corpo, facendolo tremare come un bicchiere di cristallo.
Capivo che ciò che udivo aveva un senso, ma non riuscivo a decifrarlo. Alzai gli occhi su Jeannette. Il suo viso era trasfigurato da una gioia sublime. Una luce bianchissima ci coprì come un'enorme ala e all'improvviso mi sentii risucchiata ad una velocità immensa su per un vortice radioso. Chiusi gli occhi, accecata, e quando li riaprii mi resi conto che non stavamo più nella radura.
Eravamo in un pascolo, ai piedi delle mura di una città. Era quasi giorno. Mio padre stava cercando di alzarsi, Jeannette aveva ancora quella strana espressione sul viso. Ai miei piedi, il corpo del demone alato.
"Dove siamo?" le chiesi.
Mi rispose, come in sogno: "A Lisieux..."
Mio padre la guardava con un'immensa gioia: "Sono tornate, vero?"
"Sì, Mouton, sono tornate, e mi hanno parlato. Tutto può ricominciare, ora...Sono di nuovo il Guardiano..." disse lei, tranquilla.
Mio padre sorrise, come se si sentisse immensamente sollevato.
Stavo per farmi venire una seconda crisi isterica quando mi accorsi che il demone alato si muoveva.
Mi chinai ad afferrare il pugnale di Mouton e lo affondai nella mostruosa gobba. Il demone trafitto lanciò un urlo raccapricciante e si contorse penosamente.
Poi accadde una cosa incredibile. Le ali e la gobba si staccarono dal corpo, rivelando che in realtà il demone era il risultato di una simbiosi immonda. L'animale alato che ora giaceva sul terreno in preda ad orrende convulsioni era una sorta di pipistrello cieco, con enormi ali ed un corpo senza forma. Nascondeva un lungo pungiglione con cui si era innestato sul corpo dell'uomo, una sorta di abominevole cordone ombelicale da cui traeva nutrimento e vita. Il ragazzo era in ginocchio e guardava inebetito il suo alter ego morire fra orribili spasimi. Quando tutto fu finito, estrassi il pugnale dalla carne del mostro e glielo puntai alla gola.
"Ferma, Zenzero, aspetta." Jeannette si rivolse a lui, con dolcezza. "Puoi parlare, ora?"
"S-sì."
"Come ti chiami?"
"Martin, mia signora..."
"Sei di questa città, vero?"
Il ragazzo annuì: "Sì, di Lisieux, mia signora..."
Jeannette indicò il corpo del mostro alato: "Come è successo?"
"Fu più di un mese fa. Mi imprigionarono perchè...cantavo nelle bettole quelle canzoni e poi...beh, sì, insomma, avevo rubato quei due capponi..."
"Allora?" lo incoraggiò lei.
Il viso del ragazzo si contrasse in una smorfia di dolore:
"Prima mi portarono in prigione...Poi, la notte stessa fui prelevato da quattro monaci e mi trasferirono insieme ad altri fuori città, nel vecchio cimitero, alle rovine della chiesa...Ci fecero scendere nei sotterranei...- aveva lo sguardo di chi riviveva un orrore estremo - C'era il Vescovo Cauchon. Mi esaminò insieme ai miei compagni e ordinò di mettermi in quel recinto...Poi aprirono la botola..."
Un brivido lo percorse: "E' stato orribile, mia signora, quell'animale si avventò su di me e mi trafisse...Pensavo di morire...sarebbe stato meglio..."
Mi guardò, gli occhi pieni di lacrime: "...Meglio, molto meglio...Perchè non potevo oppormi, ero in suo completo potere, capisci? Dovevo fare tutto quello che mi ordinava, altrimenti mi tormentava con orribili dolori..."
La mia decisione di ucciderlo, devo ammetterlo, si era molto affievolita. Ma quella storia non mi convinceva del tutto.
"Cosa facciamo?" chiesi a Jeannette.
"Sapresti guidarci all'interno di quei sotterranei?" disse Jeannette rivolta al ragazzo.
"Sì, mia signora, penso di sì..."
"Dobbiamo tentare - disse Jeannette - penetreremo nei sotterranei. Poi cercheremo Theodore..."
Il ragazzo annuì: "Nemmeno per mia madre ritornerei in quell'inferno, ma ormai la mia vita vi appartiene..."
Jeannette sorrise. "E' stata Zenzero a liberarti..."
Martin mi guardò con uno strano sguardo profondo e sorrise: "Disponi di me, Madamigella Zenzero."
"Sarà bene darsi da fare..." borbottai.
Jeannette curò Mouton con altri orripilanti medicamenti, malgrado le sue proteste, e, poco dopo mio padre era di nuovo in grado di muoversi agevolmente.
Mentre ci stavamo avviando verso il cimitero vecchio, che distava da Lisieux poco più di mezza lega, incontrammo, sulla strada che usciva dalla città, una ragazza bruna. Era bella, giovane, vestita di rosso e, mi sembrò, alquanto impudica.
"Martin, te la sei scampata, mio bel moretto!" esclamò allegramente, abbracciandolo - Ma cos'hai fatto, sembra che tu abbia visto il diavolo...E' stata dura là dentro? O sei triste per il nostro Vescovo?"
Martin la prese per il braccio: "Perchè, cos'è successo, Celine?"
La ragazza rise: "Come, non lo sai? Cauchon ha lasciato questa valle di lacrime..."
"Vuoi dire che è morto?" La voce di Jeannette era aspra, da sotto il suo cappuccio.
"Sì, mio bel cavaliere - rispose Celine sussiegosa - ieri mattina, mentre si faceva la barba...Gli è preso un colpo... - fece un sorrisetto malizioso - ma alcuni dicono che sia morto a letto. E non da solo... A proposito - si rivolse di nuovo a Martin - mi vieni a trovare, più tardi?"
Il ragazzo abbozzò un sorriso: "Sì, magari più tardi..."
La notizia, evidentemente, stravolgeva i piani di Jeannette e di mio padre. Ci fermammo sotto una quercia, per cercare di raccogliere le idee.
"Se è morto, non ha fatto in tempo a..." disse mio padre, rivolto a Jeannette.
La donna scosse il capo: "No, se avesse compiuto quello che aveva in mente ce ne saremmo accorti, i segni della presenza del Senza Nome sarebbero evidenti e terribili...Ma questa morte mi sembra strana..."
Erano così solenni e seri che non osavo fare le mille e mille domande che mi premevano in gola.
"Se è così, Theodore è ancora vivo..."
"Non possiamo saperlo, ma bisogna tentare. Ad ogni costo. E andare fino in fondo... E' una missione quasi senza speranza la nostra, te la senti, Martin?"
"L'ho già detto, mia signora, ormai la mia vita è vostra..."
Ci ripensai, a proposito delle domande: "Anch'io me la sento, Jeannette - lo interruppi - Ma prima vorrei sapere..."
Mio padre alzò gli occhi al cielo e Jeannette, malgrado tutto, sorrise:
"Sì, Zenzero - disse - E' arrivata l'ora di dirvi tutto..."
Ora sembrava più vecchia, e più stanca.
"Prima che nascesse il mondo - continuò - le forze del male e del bene lottarono per il suo possesso. Dopo secoli di lotta vinsero le Potenze. Il mondo nacque e fu benedetto. Le Potenze riuscirono a fermare le forze maligne.
Una di queste, la più forte, è il Senza Nome. Stretto nella sua prigione continua a cercare di liberarsi.
Soffre orribilmente perchè deve nutrirsi e, non potendo pascersi del mondo, deve nutrirsi di se stesso. Per l'eternità. E' questa la sua condanna..."
Jeannette aveva lo sguardo perso nel vuoto. Tacque per qualche secondo, poi continuò:
"Malgrado tutto, però, dalla sua prigione riesce ugualmente a insinuare i suoi tentacoli nel nostro mondo...Ecco le carestie, la guerra, l'odio fra fratelli...Riesce a chiamare a sè uomini avidi e malvagi che contribuiscono alla sua opera... "
"Il Serpente..." mormorai.
"Già, il Serpente. Il seme del male. Se il Senza Nome riuscisse a liberarsi dalla sua prigione, a passare la Soglia, il mondo sarebbe finito. Ecco perchè le Potenze hanno designato dall'inizio dei secoli qualcuno che lo sorvegliasse: il Guardiano.
Ogni generazione ha un prescelto, il cui cuore non sia macchiato dalla colpa e dalla paura..."- mi guardò - "La luna è il nostro simbolo e la nostra forza: colei che è stata messa a guardia del buio, che si rinnova per l'eternità, pura, intangibile..."
Si interruppe. Ora aveva le lacrime agli occhi.
"...Io ero il Guardiano. Ed il mio cuore era puro e senza paura...Poi incontrai quell'uomo...e lui...lui riuscì ad insinuare nel mio animo il tarlo del dubbio. Mi fece prigioniera, uccise i miei amici, e poi...rubò il mio coraggio. Mi sentivo sola, abbandonata dalle Potenze...e rinunciai. Pensai solo a nascondermi, a dimenticare tutto."
Sorrise, asciugandosi gli occhi in fretta, col dorso della mano.
"Non mi resi conto che ero stata io ad abbandonare le Potenze. Pensai che Loro avessero abbandonato me...Ma ora le ho sentite di nuovo, ora..."
"E Theodore?" chiesi in un soffio.
Jeannette si oscurò: "Theodore è mio figlio, parte di me. E può usarlo per ...forzare la Soglia, capisci? Sa che contro Theodore non potrei nulla..."
Rimasi attonita. Era un bel pasticcio. Mi rivolsi a Martin: "Dovremo fidarci di te - feci una smorfia - Mio Bel Moretto..."
Lui sorrise. Aveva un bel sorriso.
Mio padre mi interruppe:
"L'entrata ai sotterranei è sorvegliata?"
"Per quello che ne so - rispose Martin - non ci sono guardie armate, ma questo non vuol dire niente. Quelli possono farne a meno, come ben sapete..."
"Già...- ammise pensieroso Mouton - Beh, non ci resta che andare a scoprirlo - mi mise una mano sulla spalla - Zenzero, pensaci bene, sei sicura di voler venire?"
"Padre - risposi - la vita con un Senza Nome in giro non deve essere allegra..."
Mi sorrise. Sapevo che era orgoglioso di me, ma questo non attenuava i crampi allo stomaco.
Arrivammo al cimitero troppo presto per i miei gusti. A complicare la situazione e a rendere l'atmosfera ancora più spettrale, saliva una nebbiolina leggera, impalpabile, innaturale a quell'ora del giorno.
Camminammo in silenzio, affrontando il percorso che ci indicava Martin fra le zolle erbose e le grandi tombe diroccate, e ben presto arrivammo alle rovine della chiesa.
Sorgeva alla sommità di un'altura che dominava il cimitero, nascosta da un gruppo di scuri cipressi. Quando la vidi non potei trattenere un brivido: spirava da quelle rovine un'aria malefica. Niente infatti ricordava l'aspetto santo e sereno di una casa del Signore. Era piuttosto un tempio ad un dio pagano, malvagio e terribile. Dovunque dominava la forma del serpente, dalle tre colonne superstiti del pronao, che si avvolgevano su se stesse come animali pronti a scattare, alle forme bestiali e striscianti delle sculture che decoravano la facciata.
Entrammo con cautela, guardandoci attorno, scrutando attentamente nelle zone d'ombra delle navate laterali, e percorremmo tutta la navata centrale, verso l'enorme altare in pietra. Martin avanzava per primo, come un gatto. Lo vidi aggirare l'altare e poi sparire. Lo raggiungemmo: c'era una scala che portava ad una cripta.
Quando fummo tutti scesi, ci guardammo attorno, meravigliati. Era, infatti, un ambiente piuttosto piccolo, circolare, e le pareti in pietra erano completamente scolpite, con un bassorilievo il cui stile non ricordava nessuno degli stili conosciuti.
Mi resi conto che si raccontava l'epopea che ci aveva narrato Jeannette poco prima: la lotta fra le Potenze ed il Senza Nome, la sua sconfitta e la nascita del mondo.
Ma la storia continuava. Come se narrasse, pensai con un brivido, quello che doveva ancora accadere. Si vedeva infatti il Senza Nome soffrire indicibilmente nella sua prigione, poi, in un quadro successivo, la figurina di un cavaliere che con una grande spada spezzava le catene del demone e poi ancora il Senza Nome che prendeva possesso del mondo, seminando morte e distruzione. L'ultimo quadro lo mostrava trionfante, mentre inghiottiva tra le sue fauci una falce di luna.
E se il Senza Nome assomigliava anche solo vagamente a quello che vedevo raffigurato lì, non solo noi, ma tutto il mondo era in un bel pasticcio.
Mentre pensavo tutto questo, Martin sussurrò, rivolto a Jeannette:
"Signora, questa figura vi assomiglia..." - indicando il cavaliere che liberava con la sua spada il Senza Nome. Io e mio padre aguzzammo lo sguardo: era vero, il volto della figurina assomigliava prodigiosamente a quello di Jeannette.
"No...Non sono io... - Jeannette la fissava, terrea - E' Theodore..."
Per qualche secondo rimanemmo tutti a guardare impietriti il bassorilievo, poi Martin si riscosse:
"Bisogna far presto..." - disse con determinazione.
Afferrò la falce di luna e spinse con forza. Tutto l'ultimo quadro ruotò pesantemente, rivelando una lunghissima e ampia scala tagliata rozzamente nella pietra, che sembrava inabissarsi nelle viscere stesse della terra.
Cominciammo a scendere. La scala procedeva con ampie curve e ben presto ci accorgemmo che la lampada che avevamo con noi era inutile: una strana luminosità verdastra sembrava provenire dalle pareti e dalla volta.
Stavamo scendendo già da un bel po' quando, ad un tratto, una voce flebile e roca ci fece gelare il sangue nelle vene:
"Martin, amico mio, sei proprio tu?"
Martin si fermò, pareva diventato di sale:
"Richard, dove sei?" chiamò.
"Qui, proprio accanto a te...."
Seguimmo tutti il suo sguardo inorridito. Da una parete affiorò quello che sembrava un viso umano: era grigio, sofferente, ma tentava di sorridere anche se lo sforzo doveva costargli grande pena. Mi resi conto che dalle pareti altri occhi ci guardavano, mentre affioravano parti di corpi umani, imprigionati nella pietra.
"Che ti hanno fatto, Richard?" La voce di Martin era piena d'orrore.
"Quello che hanno fatto a te, fratello mio, mi hanno preso mentre rubavo..."
Martin cercò di scalfire la roccia col suo pugnale.
"E' inutile, Martin - continuò il poveretto - ormai siamo parte di questa pietra...
Mentre diceva queste parole, sentii una mano fredda e dura come il marmo toccare delicatamente la mia mano. Alzai lo sguardo e vidi due occhi infinitamente tristi che mi fissavano dalla parete.
"Oh! - esclamai - bisogna fare qualcosa per liberarli..."
L'uomo nella pietra girò la testa di poco, per guardarmi: "Non potete fare niente, madamigella, anche voi siete condannati ormai, loro sanno che siete qui..."
"Come possono saperlo?" chiesi.
"Non capite? I nostri occhi sono i loro occhi..."
In quel momento sentimmo, alla sommità della scala, il rumore sordo del grande lastrone di pietra che si richiudeva, tagliandoci la via d'uscita. Poi una fuga di piedini leggeri che scendevano di corsa. Guardammo tutti verso l'alto e, dopo qualche secondo, scorgemmo una figurina sottile.
"Theodore!" gridai.
"Ciao Yvette - disse il bambino a bassa voce - Ciao Mouton..."
"Stai bene, piccolo?"
Scese ancora qualche gradino, abbastanza perchè riuscissimo a vedere il suo sguardo.
Mi gelò: non erano gli occhi scuri e dolci di Theodore quelli che mi stavano fissando beffardi, ma freddi e gialli occhi di serpente.
"Mancavate solo voi alla festa..." disse con una strana voce atona. Poi spalancò la bocca in un orribile urlo muto.
Sentii la mano di Martin che afferrava la mia e mi trascinava di corsa giù per la scalinata. Mi accorsi che dalla base dei gradini cominciava ad uscire una nebbia verdastra. Martin, mentre correvamo giù rischiando l'osso del collo, mi gridò:
"Trattieni il respiro, per amor di Dio!"
Arrivammo alla fine dello scalone, in un piccolo atrio scuro su cui si aprivano due porte. Martin mi scaraventò dentro quella, più piccola, di sinistra, mentre l'altra si stava aprendo.
Rimanemmo in silenzio, ansanti, mentre sentivamo uno scalpiccìo di passi che correvano su per lo scalone.
Mi guardai attorno: era una specie di piccolo magazzino. C'erano molte armi e vari attrezzi. In un angolo erano appesi alcuni saii da monaco. Li infilammo, alzammo i cappucci e, dopo aver atteso qualche secondo, uscimmo attraverso un'altra porticina.
Ci trovammo in un grande chiostro poco illuminato. Sembrava deserto. Ne percorremmo il lato più lungo poi deviammo su un corridoio laterale su cui si apriva un ambiente scuro, dentro cui ci infilammo.
Sulle prime non riuscimmo a distinguere niente, e quindi ci limitammo a rimanere appiattiti fra il muro ed un pilastro vicino alla porta. Rimanemmo così per qualche tempo. Poi vedemmo filtrare da una grata sul muro, dalla parte opposta a quella dove eravamo, un debole chiarore che divenne via via più forte. Evidentemente qualcuno stava accendendo delle torce in una sala attigua.
Il chiarore ci fece distinguere, a pochi passi da noi, alti scranni attorno ad un lungo tavolo. Erano tutti occupati: almeno quaranta monaci stavano seduti, immobili, senza parlare. Sembravano statue.
Un sibilo acuto ruppe il pesante silenzio che regnava nella sala. Le figure dei monaci si alzarono lentamente e cominciarono ad avviarsi verso la porta da cui eravamo entrati. Ci appiattimmo ancora di più contro il muro, sperando che non si accorgessero di noi. Ma quando scorsi i lineamenti sotto i loro cappucci, mi resi conto che non ci avrebbero visti. Le loro orbite infatti erano vuote e scure.
Come in un incubo, vedevo sfilare davanti a noi dei morti, richiamati ad un'empia parvenza di vita.
Fu allora che sentimmo la voce di Jeannette. Proveniva dalla sala da cui filtrava la luce.
"No, figlio mio! Non farlo!" gridò.
Ci precipitammo verso la grata. Vedemmo un grande spazio rettangolare. Jeannette con Mouton erano ad una estremità, assicurati alle pareti di roccia, mani e piedi, con pesanti anelli di ferro.Mio padre sembrava inebetito, come se stesse svegliandosi da un lungo sonno.
Jeannette aveva gridato verso Theodore che si trovava all'altra estremità, in cima ad un enorme altare, sopra il quale era disteso il corpo esanime di un uomo anziano. Sovrastava l'altare una gigantesca immagine del Senza Nome, scolpita nella pietra. Un giovane, legato per i piedi al soffitto, era stato calato fino a sfiorare con la testa il petto del cadavere.
La fila dei monaci intanto era entrata da una grande porta in fondo alla sala. Qualche secondo dopo, avevano cominciato a cantare una strana litania, che si unì alle strazianti urla del condannato.
Theodore era accanto al morto e stringeva in mano un coltello. Sorrise, e con un gesto rapido lo affondò nella gola del poveretto a testa in giù. Le sue urla si spensero in un gorgoglìo e il sangue cominciò a sgorgare dal collo, riversandosi sul cadavere.
Due figure incappucciate, allora, salirono a loro volta e cominciarono a spalmare il sangue sul corpo dell'uomo nudo, come se fosse un balsamo con cui massaggiarlo.
Martin mi sussurrò:"Quello è il cadavere del Vescovo Cauchon!"
Quando i due ebbero finito, il coro accelerò il ritmo della litania.
La pelle del morto, arrossata dal sangue, cominciò a raggrinzirsi ed a spaccarsi in più punti, mentre il corpo iniziava ad essere scosso da impercettibili sussulti, che rapidamente si fecero sempre più violenti.
Assistevamo ad un'abominevole resurrezione.
Nel giro di pochi secondi, il Vescovo, richiamato in vita, si alzò a sedere e poi in piedi, lasciando, come un serpente, la sua vecchia pelle raggrinzita sul basamento dell'altare.
Le due figure incappucciate si precipitarono a coprire l'uomo con ricchi paramenti.
Il Vescovo chiamò a sè Theodore, che gli sussurrò qualche parola all'orecchio. Lo vidi sorridere. Fece un cenno ed alcuni demoni alati che andarono a liberare Jeannette e Mouton. Furono scortati davanti a lui, che li attendeva, in piedi.
Quando gli furono davanti, il Vescovo fissò Jeannette con i suoi occhi freddi.
"Ti saluto, Jeanne d'Arc..."
Lanciò uno sguardo a mio padre che lo guardava in cagnesco:
"...E saluto il tuo scudiero, il Cavalier d'Aulon!"
Fece un sorrisetto:"Mi domando chi siano gli altri due... - alzò le spalle - Non importa, li stiamo cercando, saranno presto qui, a farci compagnia anche loro..."
Guardò di nuovo Jeannette:
"Da quanto tempo aspettavo questo momento, mia cara..." proseguì "Da quando sei fuggita, portandoti via il bambino, vi ho cercato per anni, continuamente..."
"Cosa hai fatto a mio figlio, Cauchon?" Jeannette era livida, ma sosteneva fieramente il suo sguardo.
"A nostro figlio, vuoi dire...Ho su di lui gli stessi diritti che hai tu...Anzi, di più, mia cara. Perchè lui nascesse ti ho salvata dal rogo, sostituendoti con quella povera demente a cui avevo cambiato le fattezze, ricordi?"
"Eri stato tu a condannarmi a quel rogo, Cauchon. Quel bambino non ti appartiene, è stato concepito con la violenza, mentre ero prigioniera..."
"Questo bambino è mio! - sibilò il Vescovo - E' figlio del Serpente...ed è stato concepito per un grande compito...liberare il Senza Nome..."
"No!" urlò Jeannette "Sono tornate, Cauchon, le Voci mi hanno parlato di nuovo. Sono ancora il Guardiano e il Senza Nome rimarrà nella sua prigione..."
"Jeanne d'Arc, ancora non capisci... - il Vescovo la guardava con sprezzante compatimento - hai portato in te il seme del male, lo hai partorito...Non hai più il potere del Guardiano, non ne sei degna...E il mondo è rimasto senza difesa."
"Non puoi aprire la Soglia, non hai la chiave..."
Il Vescovo fece un cenno a Theodore che salì all'altare. Il bambino prese una spada e la sollevò.
"La riconosci, Jeanne? Le vedi le cinque croci incise sulla lama? - domandò il Vescovo beffardo - E' la spada del Guardiano, Jeanne, la tua spada! Gilles de Rais ha acconsentito gentilmente a consegnarmela...L'avevi affidata a lui, quella notte in cui sei fuggita col bambino, vero? Ah! non dovevi fidarti...Pover'uomo, prima di essere mandato al rogo ha dovuto subire orribili torture..."
Jeanne sussultò. "Avete ucciso anche lui, dunque?"
Il vescovo fece un gesto d'impazienza:
"Ora basta! - disse - immobilizzateli, ma non impedite loro di guardare, devono assistere al trionfo del Senza Nome..."
Alcuni demoni alati presero Mouton e Jeannette per le braccia. Il Vescovo intanto aveva raggiunto Theodore sull'altare.
"Comincia, Theodore, ripeti quello che ti ho insegnato... Apri la Soglia..." ordinò.
Theodore si voltò verso l'immagine del Senza Nome, brandendo la spada. Cominciò a recitare, con quella strana voce atona ma incredibilmente sonora, un'empia invocazione in una lingua più antica del mondo stesso.
A poco a poco l'immagine scolpita del Senza Nome si dissolse, lasciando il posto ad un rettangolo d'ombra senza fondo.
Un odore immondo cominciò a diffondersi e dopo alcuni attimi vedemmo tutti il Senza Nome prigioniero, legato da mille catene di luce, soffrire e contorcersi nell'oscurità.
"Liberalo, ora, Theodore!" gridò Cauchon.
Theodore avanzò verso la grande Ombra e cominciò a recidere con la spada i raggi luminosi che la tenevano prigioniera.
Fu allora che cominciai a sentire quel rumore, quelle profonde vibrazioni che avevo già sentito nella radura.
Guardai Jeannette: una colonna di luce la sovrastava e dopo qualche secondo si fuse in lei. La donna si liberò senza sforzo dalla stretta dei demoni alati.
Il Senza Nome, ormai libero a sua volta, la fissava con odio, pronto alla lotta.
Nel pugno di Jeannette si materializzò una spada fatta di luce. Si scagliò verso il Senza Nome affondando la spada luminosa nella sua Oscurità. Quando lui la colpì, Jeannette vacillò, ma fu un attimo. Si rialzò e riprese a combattere.
Il Vescovo fece due o tre passi verso Jeannette e rimase fermo per qualche secondo. Poi il suo corpo cominciò a contorcersi, squassato da atroci spasimi. Si contorceva e si gonfiava, diventava sempre più alto e più grande. Le membra venivano assorbite dalla grande massa del corpo, il torace si allargava, la testa si appiattiva e gli occhi diventavano rossi e incandescenti.
Completò la sua trasformazione nel giro di qualche secondo: si era tramutato in un enorme serpente, alto quanto il torrione del nostro castello. Era un incubo uscito dall'Inferno.
Stava alle spalle di Jeannette, impegnata a combattere fino allo spasimo contro la forza immane del Senza Nome. Mi resi conto che, se avesse dovuto combattere anche col Serpente, la donna non ce l'avrebbe fatta.
Jeannette, noi tutti, il mondo stesso stava per soccombere.
Mi aggrappai alle sbarre e senza quasi rendermene conto, cominciai a pregare: "Bianche Potenze, aiutatemi..."
Le vibrazioni mi squassarono come una foglia. Stavolta sentivo anch'io le Voci, stavolta anch'io le capivo:
"Non temere, Zenzero, il Male non vincerà...Ma dovrai combattere...Non possiamo darti una spada di luce, non sopporteresti la sua forza, ti ucciderebbe..."
Mi sentii risucchiata nel vortice luminoso. Quando riaprii gli occhi, mi trovai in una grande sala, illuminata a giorno da strane torce tonde e trasparenti, che mandavano una luce violenta. C'erano lunghe file di scaffali di ferro, con una quantità enorme di casse di ogni grandezza.
La Voce dentro di me sussurrò:
"Non perdere tempo a chiederti dove ti trovi, Zenzero...Devi solo trovare la tua arma..."
Seguendo le istruzioni della Voce, arrivai davanti ad una cassa di ferro. Recava una scritta, vergata in strani caratteri: ARMEE FRANCAISE.
La aprii, dentro c'era solo un cilindro lungo quanto la mia apertura di braccia, lo presi, seguendo gli ordini della Voce. Anche sul cilindro c'era una scritta, assolutamente incomprensibile: ANTI-CHAR - ST.ETIENNE 22
La Voce mi sussurrò:
"Ecco, questa è la tua arma. Non preoccuparti di come usarla, avrai me al tuo fianco..."
Di nuovo il vortice luminoso mi rapì. Riapparvi davanti ad un atterrito Martin, vicino alla grata. Non doveva essere passato che qualche secondo. Martin, indicando il cilindro che imbracciavo, balbettò: "N-non so cosa sia, ma usalo subito..."
Vidi, dalla grata, che il Serpente si stava rizzando in tutta la sua mostruosa altezza, pronto a scagliarsi su Jeannette. La donna si voltò proprio in quel momento, e mentre si voltava, il Senza Nome la colpì. Jeannette cadde a terra.
Con una calma che davvero doveva essere frutto di qualche potenza soprannaturale, mi spostai velocemente all' indietro, misi il cilindro sulla mia spalla sinistra, estrassi non so come un impugnatura dal centro dell'arma. Sapevo esattamente tutto quello che dovevo fare. Urlai a Martin:
"Scansati, presto!"
Feci partire il colpo. Ci fu una fiammata spaventosa ed un rumore di terremoto. Quando si diradò il polverone, mi resi conto che la parete in pietra che ci divideva dalla sala era stata polverizzata da un fulmine celeste, scagliato dal cilindro.
Avanzai nella sala. Avevo scatenato un parapiglia. Il Serpente si volse e mi scrutò. Poi, si diresse verso di me.
Lo aspettai ferma, con la mia arma sulla spalla, pregando che funzionasse un'altra volta. Quando mi fu davanti, pronto a colpirmi, presi la mira e premetti la parte mobile dell'impugnatura.
Il fulmine lo prese al centro degli occhi. Il Serpente lanciò un urlo disumano e stramazzò a terra, bruciando tra le fiamme.
Corsi verso Jeannette che, nel frattempo, si era rialzata e continuava a combattere. Stavo prendendo di nuovo la mira, questa volta contro il Senza Nome, quando Jeannette mi urlò:
"No, Zenzero, a lui non faresti niente! Esci e richiudi la Soglia con la spada dalle cinque croci!"
"E tu?" - le chiesi.
"Salva Theodore, Zenzero!"
Mi voltai indietro. Theodore era a pochi passi da me, imbambolato, con la spada dalle cinque croci ancora in pugno. Feci cadere il cilindro, corsi da lui e gli strappai la spada. Lo presi per mano e arretrai di qualche passo.
La Voce dentro di me cominciò a suggerirmi la formula per chiudere la Soglia. La ripetei ad alta voce, come in trance.
L'ultima cosa che vidi, prima che la Soglia fosse di nuovo chiusa, fu il Senza Nome, colpito dalla Spada di Luce, che veniva ancora una volta imprigionato da mille catene sfolgoranti e il corpo esanime di Jeannette che si dissolveva in un pulviscolo luminoso.
Il Guardiano aveva fatto il suo dovere.
Sentii la Voce dentro di me. Mi mormorava: "Sei stata brava, Zenzero, ora fuggi. E dimentica..."
"Yvette! Che è successo, dove siamo?" Gli occhi di Theodore mi fissavano terrorizzati. Erano di nuovo gli occhi del mio bambino.
"Zenzero, corri, venite via!"
Martin e mio padre mi erano accanto. I demoni erano tornati liberi quando il fulmine aveva incenerito il Serpente, ed i mostri alati con cui erano stati costretti a vivere in simbiosi, stavano agonizzando sul pavimento di pietra.
L'immagine scolpita del Senza Nome cominciò a sgretolarsi e tutta la sala iniziò a tremare come per le scosse di un terremoto.
Corremmo attraverso i corridoi, fino al chiostro e poi su per la scala, mentre dietro di noi il regno del Serpente crollava, sprofondando nell'Inferno.
Quando fummo fuori, al sicuro, nell'aria tersa della sera, vidi che una piccola folla di persone, ormai libera dagli incantesimi di Cauchon, si era tratta in salvo con noi.
Martin potè riabbracciare il suo fraterno amico Richard e io riconobbi negli occhi di una bambina timida quello sguardo dalla parete di pietra che tanto mi aveva impietosito, mentre eravamo nello scalone che portava al sotterraneo.
Tutto questo accadeva quattordici anni fa.
Naturalmente, per i registri ufficiali, Pierre Cauchon, Vescovo di Lisieux, morì la mattina del 18 ottobre 1442, di un attacco apoplettico, mentre si stava facendo la barba. Mi domando di chi fosse quella salma seppellita con tanto fasto nell'antica cattedrale di Lisieux.
Domani, 28 maggio 1456, mio padre il cavalier d'Aulon, ormai settantenne ma sempre in gamba, accompagnato a Lione da mio marito Martin e dal mio figliolo maggiore Theodore, Arciere del Re, renderà la sua deposizione a Jean Deprès, vice-inquisitore della provincia. Stanno conducendo un'inchiesta per il processo di riabilitazione di Jeanne d'Arc, condannata per eresia da un tribunale ecclesiastico, che presiedeva Pierre Cauchon, allora Vescovo di Beauvais.
Le cronache dicono che la Pulzella di Francia morì sul rogo il 30 maggio 1431.
Io, invece, domani, dopo aver affidato i miei bambini alla loro nutrice, me ne andrò un po' in giro per i boschi, a tentare qualche tiro con l'arco. Ho ancora una buona mira.