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Le tempeste spazio temporali,

si affrontano di bolina?

di

Tiziana Gagnor & Massimo Mongai

 

Forse questo racconto non dovrebbe essere qui, dato che rispetto all'essere di fantascienza pura, forse è "border-line".Un po' criptoprooustiano è. Ma insomma...

Giudicate voi.

Massimo Mongai.

 

Roma, Via Veneto, 3 Novembre 2028
Cristoforo Cayard, in servizio da trenta ore di seguito a causa della ennesima tempesta spazio-temporale che aveva investito la prima circoscrizione della ex-capitale, vagava nei dintorni di via Veneto avvolto nel suo carismatico trench-coat. Erano quindici anni ormai, dalla grande esplosione nucleare nello spazio sperimentata dall'Iraq, che il continuum di tutto il sistema solare era alterato e la conseguenza principale erano quelle maledette tempeste.
Ogni volta che sfrecciava in vespa uno dei tanti paparazzi di cui si era ripopolata la via, abbassava sugli occhi l'elegante panama bianco, per ripararsi dai flash che rincorrevano i fantasmi della Hollywood sul Tevere. Sorrideva pateticamente, lui che durante il corso di detective era risultato primo in antropologia culturale, lookologia e fenomeni di fanatismo nelle antiche civiltà: era forse uno dei pochi a capire che senso avessero quelle figure.
La tempesta era sì una alterazione del continuum, ma come al solito e per fortuna lasciava filtrare solo immagini; solo raramente, in quelle grosse, qualche oggetto fisico passava dal passato , o dal futuro, al presente e, allora sì che c'erano problemi: il rischio grosso, sostenevano i fisici era una lacerazione grave del tessuto stesso della realtà:l'oggetto andava immediatamente "respinto" in qualunque modo all'interno della falla stessa, entro il minor tempo possibile.Il continuum era come un tessuto che sfilando su una superficie liscia, improvvisamente incontrasse un chiodo: si sarebbe strappato, a meno di eliminare subito il chiodo, e di ricucire lo strappo stesso.A questo pensavano i fisici del reparto Pronto Intervento Topologico.Come facessero, non l'aveva mai capito.
Sbirciava, protetto dalla falda del suo copricapo, gli effetti secondari della tempesta che aveva investito la zona e che era - probabilmente - la conseguenza di un nuovo grado evolutivo della guerra tecnologico-antropologica scatenata dalla temibile Alleanza Nippo-Araba che in quella occasione, probabilmente, aveva inteso colpire l'Ambasciata USA ma che, per l'ennesimo errore, si era estesa all'intero quartiere.
"Stupida guerra intelligente" bofonchiò C.C.
Un travestito-prostituta databile intorno agli anni Novanta del passato millennio, (accompagnato da un uomo con barba, baffi, occhiali spessi, vestito di velluto) in preda ad un attacco schizofrenico, asseriva di chiamarsi Veneto Via (Veneto di cognome, Via di nome) e cercava di attaccare bottone ai passanti, persone di tutte le epoche, implorandoli di ridarle la corona di regina delle strade. Mentre l'accompagnatore, che probabilmente era un "intellettuale organico di sinistra", gridava ovviamente allo scandalo, la "regina" impazzita veniva risucchiata dal una piega della tempesta spazio-temporale, sparendo in una nube di particelle luminose. L'uomo la seguì..
Da un tombino, intanto, uscivano gli "zombies", cioè delle immagini più sfocate, diafane, monocromatiche, dei giardinieri di Villa Ludovisi, decisi a vendicarsi di chi ne aveva sancito la trasformazione in bordello nel 2010 e diretti alla manifestazione di piazza del 2010. Nel corso degli scontri che ci furono in quell'occasione ne erano stati uccisi la maggior parte.
Subito dopo, vide in prossimità dell'Harry's Bar gli architetti Koch e Piacentini, che vagavano, inebetiti, mentre sul marciapiede opposto avanzavano Rosso di San Secondo e la Regina Margherita, alla quale D'Annunzio, vestito da tenente dei Lancieri di Novara, tentava disperatamente e volgarmente di avvicinarsi. "Se ne vada, razza di pappagallo!" lo apostrofava la sovrana, tutta presa dalla visione di quella strada così cambiata (le visioni provocate dalla tempesta erano a due vie, quindi i vari tempi erano visibili fra di loro, anche se non per tutti). Poi la Regina, sempre più alterata, con fare definitivo, disse: "Vattene, và, vate!". L'episodio era ben conosciuto, ormai agli storici, anche se lo squallore d'insieme non lo aveva mai fatto amare al grande pubblico. Era strano come certi episodi ricorressero più frequentemente, come se contenessero una sorta di energia sconosciuta che li faceva "galleggiare" nella visione di più di altri.
Giunto alla curva, C.C. vide alcune camionette colme di soldati USA che distribuivano chewing-gum e cioccolata. Tra la folla, Innocenzo X e Guido Reni si guardavano in cagnesco. Alle prime note di un ritmo trascinante, però, dapprima riluttanti e poi sempre più coinvolti, eccoli lanciarsi in un boogie-woogie.
Riconobbe Pirandello che passeggiava tranquillo in quel caos e pareva non stupirsi di nulla. Cristoforo Cayard lo guardò, incuriosito. Il maestro gli si avvicinò, gli lanciò un'occhiata penetrante e disse:"Così è, se vi pare: sono uno, nessuno e centomila". C.C. cercò tra i suoi ricordi scolastici di letteratura del XX secolo perché gli parve di ravvisare vagamente una citazione, in quelle parole così inquietanti.
Poco distante, seduti ad un tavolino, Panunzio ed Ennio Flaiano con sulle ginocchia uno Scalfari fanciullo, commentavano brillantemente la battuta. C.C. li guardò con più attenzione: stavano sfogliando una copia de "La Repubblica"! Maccari e Brancati sogghignavano, strizzandogli l'occhio. Mmmhmh, era pericoloso: uno scambio di oggetti, ma non nel presente! Non sapeva cosa pensare: era o no? pericoloso? Fece una segnalazione con il suo computer da polso al Pronto Intervento Topologico ed andò oltre. Il suo compito era il presente, facessero loro.
Più tardi cominciò ad entrare anche nelle immagini dei palazzi abbattuti alla fine del millennio, nella zona della Piazza del Tritone.Entrò in un, come si chiamavano?, ah si, "cinema". Non c'era anima viva. Solo un antico videoregistratore con megaschermo dava segni di vita, accanto ad un cumulo di, "telefonini" portatili. C.C. si avvicinò. Il nastro incespicava, insofferente e provato dalla tempesta magnetica. C.C. gli diede un colpo, brusco come lui. Dallo schermo, uscì un intenso raggio verde, che lo sommerse e invase l'intera stanza, lambendo anche gli antichi computer e una bandiera del Moro di Venezia collocata, come un trofeo, accanto ad un mobile definibile come "scrivania"... di quelle che usavano allora, negli "uffici", per lavorare, prima dell'avvento del telelavoro generalizzato. Chissà a chi era appartenuta quella bandiera, pensò Cristoforo Cayard. La luce divenne azzurra e improvvisamente sul monitor apparve un telecronista dallo stile concitato, com'era in uso nelle telecronache sportive sul finire dello scorso millennio. Trasmetteva da San Diego, U.S.A.:
"... La Nina, la Pinta e la Santa Maria hanno battuto il Moro di Venezia di 1 secondo... e 500 anni...nella finale della quarta regata della Christopher Columbus Cup, per la conquista delle Americhe..."
Ah, sì... Cristoforo Cayard ricordava vagamente qualcosa di simile, anche se c'era evidentemente una confusione di piani temporali; qualcuno l'aveva poi soprannominata "la coppa del genocidio", data la successiva invasione del Nuovo Continente da parte di pseudo sportivi fanatici e sanguinari, velisti accaniti, gommoni, petroliere, fantozziani personaggi con barcarole, in tenuta da skipper, che fu letale per le popolazioni indigene, sommerse da quintali di sacchetti di plastica, resti di vele dai nomi più strampalati, gommoni, motori, boe e da esplosioni linguistiche devastanti per l'equilibrio bio-psico-antropologico: bompresso, spinnaker, gennaker, lasco, bolina, rap, rock, randa, grinder, hot-dog, etc. etc... C'era ancora una gran confusione, dal quelle parti, ma per forza, lì mica avevano semplici tempeste spazio-temporali, lì avevano i "tifoni" spazio-temporali.
La telesintesi della regata, imperterrita, proseguiva come tappetino vocale sulle immagini delle barche che veleggiavano a tre metri di altezza sull'acqua:
"... Paul Cayard anche in questa occasione effettuava un'ottima partenza e nel primo incrocio con la Nina aveva un vantaggio di un paio di lunghezze. La Pinta e la Santa Maria sbagliavano la partenza per non aver calcolato bene l'effetto della corrente, che era forte (80/90 nodi) e partivano con un ritardo di 20 e 30 secondi. La Pinta tornava in gioco durante la prima bolina, portandosi a ridosso della Nina e del Moro. Il distacco, comunque, rimaneva sostanzialmente invariato fino al secondo lasco, quando la barca veneziana di Cayard issava un gennaker psionico e la Nina, la caravella personale di Colombo, naturalmente, si affidava a un genoa di carbonio virtuale. Intanto la Santa Maria rompeva due stecche nonché il gancio magnetico che tiene attaccata la penna della randa alla cima extra dimensionale dell'albero. Il gennaker si dimostrava la vela più giusta per quell'andatura e il Moro si allungava decisamente. Alla fine del terzo lasco, il vento rafforzava da sinistra e la Nina, che si trovava in quel lato del percorso, si avvantaggiava. Nella poppa successiva, si portava a ridosso del Moro e, sfruttando un rinforzo di vento proveniente inaspettatamente dal terzo secolo avanti Cristo, Colombo riusciva ad appaiare la barca di Cayard e a tagliare il traguardo quattro secoli prima..."
Ma dalle immagini appariva chiaramente che, nello slancio di tagliare la linea d'arrivo prima del Moro, la caravella di Colombo aveva commesso l'errore di avvicinarsi troppo alla boa su cui il diabolico tattico Caboto aveva collocato una macchina dello spazio-tempo e progettata da Louis Vuitton per Raoul Gradini Redivivo, sfiorandola, e così, dopo una serie di disturbi video, si vedevano i due ammiragli proiettati in un futuristico studio televisivo. Qui una robot-conduttrice vestita alla marinara (citazione della piccola Susy Agnelli, anche lei presente in sala? Mah, non erano mai visioni molto chiare quelle dei tifoni) dopo aver ricordato uno degli sponsor (la sensuale brillantina "Hard, quella dei baffi di Cayard"). Si sentì turbato, come proiettato nella visualizzazione di un confronto tra il proprio nome e il proprio cognome. Che succedeva? Cosa poteva significare?
Cristoforo Colombo, dall'aria un po' inebetita ed indispettita, ci tenne a precisare che era stato lui a scoprire l'America e che era ora di finirla con queste confusioni e sovrapposizioni temporali. Orgogliosamente, con un sentore vagamente arteriosclerotico, brandendo un pezzo di timone rimastogli in mano, ripeteva di essere stufo di venir confuso col Tenente Colombo, e di voler approfittare dell'occasione per chiarire che a scoprire il Nuovo Continente non era stato né quel bellimbusto della brillantina, né Gèrard Dèpardieu che era una beffa di Ridley Scott, ed era anche francese e nonostante il suo magnetismo cinematografico non sarebbe piaciuto ad Isabella di Castiglia.
Farneticando sempre di più, si arrampicava alla torretta di sostegno delle luci dello studio, come fosse stata un albero maestro, urlando "Le Americhe sono MIE! MIE! Questa volta non mi fregate, il governatore ero e sono io, la coppa l'ho vinta io, e me le tengo!" con un agghiacciante effetto patetico, dato l'accento genovese e le ripetizioni ossessive da vecchietto arteriosclerotico; certo che i suoi seicento anni li dimostrava tutti.
Guardando negli occhi la robot-conduttrice, con voce vellutata, Paul Cayard chiarì che evidentemente durante la navigazione dovevano essere finiti in qualche finestra temporale, e che lui e il suo equipaggio si stavano battendo, in realtà, con una barca dal nome New Zealand, per la Coppa America.
Con tecnica pignoleria, sciorinò una dettagliatissima sintesi dei tempi storici di tutte le gare, coinvolgendo e affascinando con fare suadente i più reconditi chips della cibernetica presentatrice e inducendo il genovese Colombo a scendere dalla sua scomoda posizione e a lasciar da parte il proprio campanilismo da repubblica marinara, tanto da sedersi accanto alla bandiera del Moro di Venezia. Da un monitor, lo skipper vide l'esito di quell'ultima regata e, affranto, si trincerò in un ombroso silenzio. Una radicata solidarietà di autentico lupo di mare s'impadronì, allora, di Colombo, che gli si avvicinò e gli dedicò un pot-pourri di canzoni di Lauzi e di De André inframezzate da "Ea biondina in gondoeta".
Paul Cayard, con lo sguardo a terra e i baffi sempre più cadenti, ripeteva mestamente: "E' vero, non ce l'ho fatta, dovevo andar di bolina, nelle tempeste spazio temporali, bisogna andare controcorrente, controtempo, e quindi di bolina...".
Colombo, tirando fuori l'espressione più ufficiale in suo possesso, gli disse che, comunque, la sua era la prima barca italiana che, a 500 anni da lui, avesse conquistato l'America. Cayard si scosse, si ridestò, riconoscente. Iniziò così un amichevole ping-pong: "L'America è tua" "No, è tua!" "Ma se ti dico che è tua! "Ma non, no: è solo tua".
In quel momento, come una furia, entrò nello studio, guidata da un Geronimo in tenuta da velista, macchiata di sangue, una banda di apaches, inca, sioux, idatsa, mandan, tlingit, irochesi, insomma indiani, incazzatissimi, che cominciarono a spaccare tutto, ad uccidere chi potevano, urlando cose che venivano tradotte in sottotitoli in simultanea "L'America è nostra, altro che!" Colombo e Cayard si guardarono, convenendo che, in teoria, sì, avevano ragione, ma che in pratica, cioé, no, insomma...
Uscito dal cinema, Cristoforo Cayard alzò il bavero del suo trench, sentendosi più che mai confuso nei suoi conflitti anagrafici pensando che non c'era niente da fare, gi americani erano sempre esagerati, chissà perché.
Controllò l'ora sul computer da polso, l'ora media, certo. Vide che ormai era già ieri l'altro, e che poteva tornare a casa, lasciando il turno al collega, Ciuccio "cruciverba" Bartezzaghi, quel maniaco.Chissà cosa avrebbe combinato sul prossimo numero.
Si allontanò, verso Piazza San Silvestro.