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Dream

di

Andrea Franco


Vivo,
cullando quel vago desio
nel regno dei sensi errante,
vaga lo sguardo
tuo,
immerso nel tetro lucore
dell’animo.
La pioggia scemò, trasformandosi in fine acquerugiola.
A*** scrutò timoroso il cielo, poi uscì dalla protezione fornitagli dal telone del giornalaio. Non era una giornata fredda e come sua consuetudine, sopra i blue jeans scuri indossava solo una variopinta maglia a mezze maniche.
Ottobre lo aveva sempre affascinato; quei colori vaghi, che mutavano dal tenue giallo ocra al fiammante rosso scarlatto per poi morire nel tetro marrone corteccia, lo facevano sentire più a suo agio.
Forse perché era così che si sentiva: secco, morente. Non riteneva questo suo modo cupo di sentirsi come un qualche cosa di negativo. Anzi, riusciva a convivere a meraviglia con questa sua maniera di percepire le cose.
Si capiva. Conosceva a fondo se stesso. Ne era orgoglioso.
Conoscendo se stesso aveva imparato a conoscere gli altri e fin da molto giovane cominciò a scoprirne i vantaggi. Un buon osservatore vale dieci ricercatori, aveva sempre detto. E così aveva sempre fatto: osservato.
La cosa gli era stata molto utile anche nel suo lavoro. Non poteva certo affermare che fare l’investigatore privato fosse stato il suo sogno nel cassetto. Chi lo conosceva sapeva benissimo quali erano le sue passioni: le auto, la musica, le donne.
Aveva fallito in tutto.
E così ora osservava.
Ed era bravo, il migliore.
Un nuovo scrollone di pioggia lo colpì all’improvviso. Il cielo si era fatto più scuro e cupi nuvoloni neri si rincorrevano piegandosi sulla città come un enorme sudario. Una leggera brezza cantava tra le fronde nude degli alberi.
Girò rapidamente su se stesso alla ricerca di un riparo. Immerso nei propri pensieri aveva camminato più di quanto avesse creduto. Si trovava sulla soglia di un cancello monumentale, arrugginito da numerosi anni di abbandono. Oltre il cancello, una casa ancora più decadente, dominava la visuale, immersa in un silenzio innaturale.
Sembrava una vecchia casa del ‘700.
Strano, pensò. Non ricordo di averla mai vista.
Un tuono rabbioso gli rammentò che forse quello non era il momento più adatto per stabilire se avesse o meno visto quella casa in precedenza. Superò il cancello e salì i cigolanti gradini di lego che conducevano al portico della casa.
Gli venne in mente un romanzo che aveva letto da giovane: "The house of seven gables". Sulla copertina del libro era raffigurata una vecchia casa, proprio simile a quella che ora lo ospitava.
E’ veramente malandata, pensò.
Si stirò lentamente la schiena, rabbrividendo al sollievo provato dalla tensione che sentiva defluire dai muscoli. Sembrava che la casa avesse scaricato su di lui la vecchiaia e la pesantezza accumulata in tanti decenni.
Il tempo sembrava non voler migliorare.
Era stufo di attendere inattivo, passeggiando nervosamente avanti e indietro sul fradicio pavimento di legno. Si portò davanti alla porta della casa, le vetrate naturalmente spaccate, e l’aprì.
Il delicato vento che soffiava all’esterno, filtrando attraverso le numerose ferite della casa, si riproduceva in una caotica sinfonia di ululati, che avevano un qualche cosa di demoniaco.
Una strana ed improvvisa sensazione di meraviglia lo avvolse, stordendolo, facendogli girare la testa. Respirò a fondo e si tuffò nel tetro lucore dell’edificio.
L’odore di muffa e polvere quasi lo sopraffece. Era un qualcosa di quasi tangibile. Attese alcuni attimi per abituare gli occhi a quel buio, che sfidava qualsiasi immaginazione.
Stranamente l’arredamento sembrava essere in condizioni più che discrete. Evidentemente non tutto era in rovina in quella casa.
Non male, pensò.
Vagò perlopiù senza una meta precisa. Si guardava attorno cercando di catturare più particolari possibile.
Era il suo lavoro.
Non c’era niente di eccessivamente interessante. Vecchi mobili affollati di minuziosi e forse un tempo preziosi oggettini. Librerie cadenti con libri mangiati dalla muffa, che regnava sovrana ovunque.
Stava per lasciare una piccola stanza, che forse una volta era uno studio, quando una cornice capovolta, poggiata su uno scaffale, richiamò la sua attenzione. La raccolse con delicatezza, quasi con timore, Era d’argento, rovinato naturalmente. Doveva essere stata molto bella una volta, ma oramai era difficile fare una valutazione precisa. Racchiudeva una foto ingiallita. Una donna giovane e bella, notò. I capelli scuri si raccoglievano con dolcezza attorno ai lineamenti dolci del viso.
E gli occhi! Quegli occhi…
Assomigliava a lei.
Molto.
Era bella.
Poggiò la foto dove l’aveva presa e notò una piccola macchia di sangue sopra la cornice d’argento.
Era fresca. Si guardò le mai e si accorse con stupore di avere un piccolo taglio alla mano destra. Probabilmente si era tagliato all’interno di quella casa senza rendersene conto. Tamponò la ferita con un fazzoletto e si avviò all’uscita, cercando di dimenticare quel volto.
Non pioveva più. Timidi triangoli azzurri si affacciavano ribelli da dietro le nubi.
Tornò a casa.
14 Aprile 19**
Il campanello suonò una sola volta.
A*** aprì la porta proprio un istante prima che il postino suonasse ancora.
Buongiorno. – L’uomo sorrideva – E’ lei il signor A*** F***? –
Si. Si, sono io. – Sorrise a sua volta. Era di buon umore, come al solito.
C’è una lettera per lei. Deve mettere una firma qua. –
Grazie. – Prese il foglio che il postino gli porgeva e firmò. L’uomo tirò fuori la lettera dalla borsa colma e gliela consegnò.
Lo ringraziò e senza attendere che il postino si voltasse per andarsene, chiuse la porta. Da buon osservatore andò subito a leggere il mittente.
Sul davanti della busta a caratteri ordinati c’era scritto: mitt. Ardem
Ardem. E cosa diavolo sarà mai, rifletté.
Aprì la busta e lesse. La signorina Ardem, strano nome per una ragazza, richiedeva disperatamente il suo aiuto. Il suo nome gli era stato fatto da un’amica, eccetera eccetera.
Per lui quella busta rappresentava solo una cosa: lavoro.
Non potendosi recare lei allo studio, lo pregava di andare lui a casa sua. A*** annotò l’indirizzo e senza perdere tempo uscì di casa. Le ultime parole della lettera erano: "E’ urgente. Questione di vita o di morte".
Mah! Sicuramente esagerava. Le donne lo facevano per abitudine. Lo aveva imparato da tempo.
Si affrettò comunque.
Si era dimenticato della presenza di quella casa.
Quanti mesi erano trascorsi? Cinque? Sei? Non ricordava.
Era cambiata molto. Non era più un vecchio edificio pericolante. Se non avesse avuto la certezza che era la stessa casa, probabilmente non l’avrebbe mai riconosciuta. Invece ora riusciva a distinguere alcuni particolari che aveva già notato l’autunno precedente il lungo portico, che non cigolava più, le ampie vetrate con il tetto a spiovente.
Si, era cambiata.
Ma le sorprese non erano finite.
Non aveva bisogno di fare confronti per riconoscere il viso della ragazza che gli aprì la porta. La foto. Era la ragazza della foto. Ricordava con chiarezza allucinante.
- Ehi? – La voce era dolce, familiare. – Mi sente? –
Si scosse. Abbozzò un sorriso poco naturale e la salutò tendendo una mano.
- Mi scusi, ero distratto. I suoi occhi…bè, non fa niente. Piacere di conoscerla. Io sono A*** F***. –
La ragazza sorrise. Era stellare. I ricordi tornarono a galla vorticosamente.
- Il mio nome è Ardem. Strano vero? Ma prego, accomodati. Posso darti del tu? –
- Certo. –
Anche l’interno non era più lo stesso. Era più bello, ovviamente.
Si intuiva un certo gusto femminile nell’arredamento e nei colori.
- E’ molto bella. E’ cambiata rispetto a qualche mese fa. –
- Ti ricordi come era prima? – La sua voce lo incantava. Cercò di non distrarsi.
- Sono passato da queste parti quasi per caso, un po’ di tempo fa. –
Si guardava intorno con interesse. Cercava la cornice, la foto. Forse si sbagliava. Le assomigliava solamente. Non poteva in alcun modo essere la stessa ragazza.
Ardem lo fece accomodare su una poltrona di pelle rossa molto comoda, e sorrise con calore prima di cominciare a parlare.
- Mi dispiace essere così brusca e venire subito al dunque, ma in questa casa avvengono cose che mi inquietano. Forse non vorrai crederci, ma qui vivono gli spettri di due persone. Due amanti.
- Spettri? –
- Si, o cose de genere. Non so come li chiamano gli esperti. Presenze, forse. E sono in questa casa. Compaiono all’improvviso, silenziosamente. Si comportano come se io non ci fossi. Si amano.
- Chi? –
- Gli spettri. Un ragazzo e una ragazza. Dovevano volersi molto bene in vita. –
- Non sembri essere spaventata. Dalla lettera… -
Lo sono fino a un certo punto. Ma non posso continuare così. Te vivresti insieme a due fantasmi? –
A*** sorrise. La situazione diventava sempre più strana. La vecchia casa, la lettera. La ragazza della foto e questa Ardem che tanto le assomigliava.
E il suo passato. Il suo più grande fallimento che si riaffacciava da un tempo lontano.
Puoi descrivermeli? – La voce pacata.
Lui non è proprio un bel ragazzo. Te l’ho già detto che sono due ragazzi? Dicevo. Non è granché. Lei invece…- sospirò, alzando gli occhi ricordando – Lei è molto bella. Due occhi espressivi che… che parlano, potrei dire. –
A*** sussultò, ma Ardem non se ne accorse o non lo diede a vedere. Sempre più strano.
Tutto qui? –
Ero spaventata, devi capirmi. –
Ok, capisco.
Potresti trasferirti qui per alcuni giorni? Sai, non compaiono certo a comando. Naturalmente solo se non ti disturba e… sempre se accetti. La camera degli ospiti è molto accogliente. –
A*** chinò lo sguardo a terra, riflettendo. Gli eventi meritavano un’analisi più approfondita e…
Va bene. Accetto.
Benissimo, preparo la stanza. –
I due amanti non lo fecero attendere a lungo.
Ardem aveva preparato una cenetta leggera e poi erano andati entrambi nella propria camera. La ragazza aveva detto il vero: la camera dove avrebbe dovuto dormire si presentava bene.
Il materasso era abbastanza duro, come piaceva a lui. Accanto al letto una at-bajour illuminava tenuemente le pareti vicine, sbiadendo l’accesso azzurro della carta da parati. Una piccola libreria, non molto fornita a dire il vero, occupava la parete opposta a quella del letto. Prima di prepararsi per la notte, naturalmente era passato a casa per prendere l’occorrente, scelse con cura un libro e lo poggiò sul comodino.
Ancora non aveva avuto il coraggio di pensare a quell’assurda storia. Il tutto sembrava irreale, ma riusciva a intravedere un delicato filo conduttore che dava un senso agli eventi. Socchiuse gli occhi e fece un rapido riepilogo.
La foto. Ardem. La vecchia casa e i due spiriti. Due ragazzi. Amanti. Lui mediocre. Lei raggiante, mozzafiato.
Gli sembrava di rivivere al rallentatore il suo passato, non troppo remoto fra l’altro. Se non fosse che aveva ritrovato negli occhi di Ardem la stessa luce che anni addietro lo aveva stregato. Ma c’era qualche cosa di più. Non erano solo gli occhi. Era l’insieme complessivo di emozioni e di stati d’animo che quel viso fanciullesco riusciva a trasmettere.
Era difficile da spiegare. Lui stesso stentava a gestire le sensazioni che quel modo di essere donna suscitavano in lui. Si era ripromesso di dimenticare. Credeva di esserci riuscito.
Sbagliava.
Istintivamente, senza motivo, uscì dalla stanza. Percorse un breve corridoio e scese le scale, fino alla sala dove quel pomeriggio lui e Ardem avevano parlato. Si stava ancora chiedendo quale strano istinto l’avesse portato lì quando due figure scure gli passarono davanti, in uno strano silenzio.
Sussultò, spaventato dall’improvvisa apparizione. Bè, almeno la ragazza non si era inventata tutto. Ma già lo sapeva.
Senza pensarci accese la luce. Strinse gli occhi accecato, ma si abituò subito alla nuova luminosità.
I due non avevano fatto molta strada. Sedevano abbracciati su una poltrona. Sorridevano. Si stuzzicavano ridendo. Si baciavano.
Si riconobbe all’istante. E riconobbe anche lei.
Lui era più giovane, ma non si notava molto. Lei era proprio come la ricordava. La sua immagine, che nonostante i suoi vani tentativi di cacciarla, continuava a vivere impressa nella sua mente, non era affatto mutata.
Doveva sedersi. Le gambe non lo reggevano più. Prese posto sulla poltrona rossa, dirimpetto ai due. Sembrava che non lo vedessero e forse era proprio così.
Chi è la realtà e chi il sogno?
Pianse.
Adagiato sulla poltrona si addormentò senza rendersene conto. Quando si risvegliò i due non c’erano più.
Il sole si affacciava timidamente oltre l’orizzonte. Alcuni raggi, ancora deboli, filtravano attraverso le tende colorate sulle finestre, dardeggiando senza nessuno schema apparente gli oggetti e le pareti della stanza.
Si alzò in piedi, stirando i muscoli.
Si voltò e lei era lì, a un passo da lui.
Disorientato si guardò attorno, alla ricerca dell’altro se stesso.
Non c’era.
Tornò a guardarla. Affrontò lo splendore disarmante dei suoi occhi. Lei lo fissava a sua volta e quello sguardo era l’equivalente di cento discorsi, di mille parole mai dette.
A*** abbassò lo sguardo.
Era troppo per lui. Tanto tempo addietro aveva imparato a convivere con l’idea di non poter mai condividere con lei la gaia vitalità di quell’intenso amore. Quel ruolo spettava ad un altro, e così era stato.
Intuì che lei si avvicinava. Alzò il viso e tornò a guardarla. Sentì una lacrima solitaria scendere incerta sulla sua guancia.
Il bacio che lei gli diede era dolce, ma dopotutto in lei tutto era dolce. Lo assaporò, cercando in quel momento di cancellare qualsiasi altro pensiero, di vivere in un solo istante una vita mai vissuta.
Si staccarono lentamente.
A*** cercò di controllare il vortice di emozioni che lo pervadeva. Si sentì rabbrividire. Dovette sedersi e chiude gli occhi.
Si addormentò e sognò…
Fu Ardem a svegliarlo.
- Come mai sei finito quaggiù? Bè, non fa niente. Vieni di là, ti preparo un caffè. -
si alzò controvoglia dalla poltrona. Si era addormentato di nuovo senza rendersene conto. E nel momento meno adatto. Lei era scomparsa e capì che la cosa era definitiva. Dalla cucina Ardem lo chiamò.
Vieni, è pronto. Dormito bene? – A*** annuì in silenzio. Saggiò con la punta della lingua il caffè bollente. Sembrava buono.
Non aveva voglia di parlare. Ardem lo guardava in silenzio dando l’impressione di capire. Meglio così. Bevve con calma, riflettendo sull’accaduto. Lui era totalmente convinto che i due fantasmi non si sarebbero ripresentati. Lui lo sapeva, ma sarebbe stato difficile spiegarne alla ragazza il perché.
Non spiegherò un bel niente, si disse.
Prese le sue cose dalla stanza e poggiò tutto sul portico fuori dalla porta. Ardem continuava a guardarlo silenziosa. A*** credette anche di vederla sorridere, ma non ci fece caso più di tanto.
Lo seguì sul portico.
Li hai visti. – disse. Non c’era curiosità nel tono della voce. Era un’affermazione, non una domanda.
A*** annuì di nuovo. Fissava un punto imprecisato nel vuoto davanti a lui, verso la strada. Prese la borsa e si avviò verso il cancello. A metà strada si fermò e si rivolse alla ragazza.
E’ tutto finito. Non chiedermi il perché. Sarebbe impossibile da spiegare. Non capiresti. L’importante è che tu sappia che era solo un sogno. Il sogno della mia vita.- Attese alcuni istanti, soppesando il significato di ciò che aveva detto.
Addio Ardem.
Fece alcuni passi, riflettendo su quello strano nome, poi si bloccò con un nodo alla gola.
Ardem, pensò. Ardem è l’anagramma di dream! Sogno
Si voltò di scatto e la sorpresa gli rapì il fiato in gola: di fronte a lui c’era al vecchia e malandata casa di quella lontana giornata d’ottobre.
Rimase stordito alcuni momenti, poi si costrinse a distogliere lo sguardo dall’edificio. Poteva sentire il vento che cantava cupo attraverso le fessure della vecchia casa. Arrivò a passi lenti fino al cancello arrugginito.
Lo aprì senza voltarsi indietro e si avviò a passi svelti lungo la strada.