Nigralatebra (logo)Il Foglio di Fantafolio

TOBOR:

Il mio amico robot contro il “Pericolo rosso”

di Riccardo Rosati

Il periodo della storia americana che in letteratura viene comunemente definito con la sigla Tranquillized Fifties trovò ampio sfogo nel cinema sci-fi. Difatti, ritengo che sia proprio in quest’ottica che andrebbe analizzato il bel film in bianco e nero Tobor (tit. or. Tobor the Great, 1953).

Per vedere molte immagini del film:

http://www.mtbmc.net/boundit/visitors/v09/tobor.html

Opera del poco conosciuto Lee Sholem, la suddetta pellicola si può interpretare in tre modi ben distinti. Il primo tra questi tenderebbe a mostrarcela come un’opera per ragazzi, la quale ci presenta un suggestivo eroe “all American” nel suo protagonista: il robot Tobor. La seconda chiave di lettura, più filologica e sofisticata, ci incoraggerebbe a riconoscere il ruolo fondamentale che il film in questione ha svolto nell’evoluzione della figura del robot nella fantascienza. La terza, quella che preferisco (ma è una questione personale, intendiamoci!), ci spingerebbe a notare come l’opera del regista statunitense trabocchi di quel sentimento “anti-comunista”, perciò anti-sovietico, così forte nell’americano medio di quegli anni. Comunque, se vogliamo capire davvero qualcosa di una pellicola del genere, solo superficialmente ingenua, dobbiamo prendere in considerazione tutte e tre le alternative, lasciando che sia la nostra soggettività a farci propendere per l’una o per l’altra.

La trama presenta un giovane e aitante scienziato, il dottor Harrison (Charles Drake), che sbatte la porta in faccia a una primitiva agenzia spaziale americana (La Nasa vera e propria non c’era ancora, visto che verrà istituita solo nel 1958), a causa dell’irresponsabile utilizzo di piloti umani durante i vari collaudi, in previsione di un imminente messa in orbita di un razzo spaziale.

Si sa che l’America non può permettersi di essere seconda a nessuno, tanto meno nella corsa allo spazio; ma i suoi scienziati trovano un ostacolo quasi insormontabile nel, cito, “fattore umano”. In altre parole, gli astronauti Usa non sono proprio all’altezza della situazione!

Ben presto il sanguigno Harrison fa la conoscenza del vecchio e saggio professor Northstrom. Costui, in possesso di ben 22 lauree, è riuscito a risolvere il problema che frena la conquista statunitense degli spazi. Infatti, egli ha costruito un sofisticatissimo robot, capace di pilotare un razzo spaziale come e meglio di un essere umano. Tuttavia, Northstrom ha bisogno dell’aiuto di Harrison per perfezionare la sua creazione. Ovviamente, il secondo accetta con estrema gioia la proposta del collega.

Presto detto ed ecco che viene presentato alla stampa internazionale Tobor: “robot” letto al contrario. Da notare che nella storia i giornalisti sono sempre dipinti come degli insopportabili ficcanaso. Ciò è probabilmente imputabile all’influenza della repressiva censura maccarthista.

Il frutto della collaborazione tra i due valenti scienziati però non lascia indifferente una fantomatica potenza straniera; la quale invia subito delle spie per rubare i progetti di Tobor. Fermiamoci un attimo, in modo da notare come questi emissari, nemici della libera e democratica America, vengano spesso accompagnati da una musichetta molto simile al tema di “Volga, Volga”. Per giunta, uno di loro fa riferimento a un partito centrale a cui fare rapporto sull’evoluzione della loro missione in terra nemica. Non bisogna sforzarsi un granché, per capire che Sholem e compagni se la stanno prendendo proprio con i cattivissimi russi (all’epoca “sovietici”). E le sopracitate spie cattive lo sono per davvero: tanto da rapire lo stesso Northstrom e il nipote Brian (chiamato in famiglia col nomignolo “Grillo”) e da minacciare di sfregiare quest’ultimo con la fiamma ossidrica, così da convincere il nonno a collaborare.

Ora, facciamo un passo indietro. Si è già accennato al sodalizio tra Harrison e il più anziano collega per perfezionare Tobor. Durante questo periodo di lavoro, il primo viene accolto nella casa-laboratorio di Northstrom. Qui il vecchio luminare della robotica vive in compagnia dell’avvenente figlia rimasta vedova, del nipotino “Grillo” e di un fidato e scorbutico maggiordomo.   

Come già detto, dopo alcuni mesi di duro lavoro, la coppia di scienziati riesce a mettere a punto Tobor e specialmente il suo innovativo comando mentale. Qui troviamo la caratteristica principale che ascrivere pienamente quest’opera nella fantascienza anglosassone tra gli anni ’40 e ’60 (la Space Opera per intenderci);  così piena di un ingenuo e romantico sense of wonder. Per la precisione, il nostro eroe metallico può essere telecomandato per mezzo, udite udite, della telepatia! Ma non finisce qua, dato che il “mitico” Tobor sviluppa addirittura un sentimento paterno nei confronti del piccolo Brian; tanto da correre in soccorso del ragazzo, quando quest’ultimo viene rapito da malvagi agenti-volga-volga. Certo, siamo ben lontani dalla scientifica e razionale visione che il grande Isaac Asimov ebbe di questi esseri artificiali, quando coniò le sue celeberrime Tre leggi sulla robotica (già apparse in Runaround, racconto del 1942, ndr).

La storia termina con un coinvolgente, per quanto rapido, “arrivano i nostri”; durante il quale Tobor libera Northstrom e il nipote. Le ultime sequenze ci mostrano il robot alla guida di un razzo spaziale: una nuova era si è dunque aperta nella storia dell’umanità!

Ingenuità narrative a parte (sceneggiatura di Philip McDonald da un soggetto di Carl Dudley), Tobor riveste un ruolo fondamentale nella storia del cinema fantascientifico. Per capire affondo tale aspetto, rievochiamo le tre differenti chiavi di lettura a cui abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.

Sicuramente, il rapporto tra il robot e “Grillo” è uno dei punti forti della narrazione, nella quale trapela chiaramente la figura dell’automa come amico fidato dell’uomo. Anzi, diciamo che si tratta di autentico martire visto che è più volte vittima dell’insaziabile curiosità scientifica del ragazzo. La storia ruota infatti attorno all'amicizia tra Tobor e il nipotino dello scienziato, che, come tutti i bambini superintelligenti del cinema americano di quegli anni, è piuttosto saccente e, diciamolo pure, francamente insopportabile. Qualsiasi persona si stancherebbe a dargli retta, ma Tobor no: lo considera alla stregua di un amico, un autentico compagno di giochi. Segno forse che il suo “cuore” metallico è ben più sensibile di quello umano?

Per quanto riguarda l’importanza del film nel vasto panorama sci-fi che affronta il suggestivo tema della “intelligenza artificiale”, possiamo considerare questo prodotto cinematografico come uno degli ultimi che tenta sì di umanizzare i robot, sebbene per converso anticipi in modo molto approssimativo interpretazioni decisamente più scientifiche e disincantate. Tra queste spicca ovviamente quella indimenticabile di Robby ne Il pianeta proibito (di F.M. Wilcox, 1956).

Vogliamo però essere un po’ cattivi e perciò cerchiamo di capire anche quello che c’è “dietro” l’apparente innocenza di questa storia. A parer mio Tobor risente, come del resto molti altri film dell’epoca, di quel clima assolutamente repressivo e a tratti xenofobo che caratterizza parte della cultura americana degli anni ’50. Particolarmente nella settima arte, non è affatto difficile imbattersi in opere inclini ad allarmare l’americano medio nei confronti di un incombente “pericolo comunista”. Vuoi che esso venga camuffato sotto forma di parassiti alieni (L’invasione degli ultracorpi) e o di misteriosi e spietati agenti di una volga-volga-potenza straniera (come accade in Tobor), il “pericolo rosso” è un vero leitmotiv di buon parte del cinema Usa di questi anni.

In ultima analisi, quella di Sholem non è poi una pellicola così innocente e spensierata, come invece saremmo spinti a credere  dopo una prima riflessione.

Che altro dire? Forse Tobor andrebbe davvero visto tre volte di fila, così da comprenderne bene l’essenza. Personalmente, la mia opinione l’ho espressa. Può darsi che sia una esagerazione o magari che io abbia semplicemente prestato maggiore attenzione a determinati particolari, piuttosto che ad altri. Comunque, tutto ciò ci fa riflettere su di una cosa importante: che abituandosi a osservare perfino il più piccolo dettaglio, ci si accorge che sono davvero poche le opere frutto dell’umano ingegno che hanno poco o nulla da dire al pubblico.

Nel cinema succede quello che accade nella musica. Chi ascolta distrattamente percepisce soltanto il suono d’insieme. Tuttavia, basta prestare un po’ più d’attenzione per distinguere i violini dalle viole o il basso dalla batteria.

Riccardo Rosati
morbius.r@tiscalinet.it

Per saperne di più sui Tranquillized Fifties, quegli anni ’50 del secolo scorso intrisi del falso puritanesimo maccarthista c’è Storia della letteratura americana di G. Fink, M. Maffi, F Minganti, B Tarozzi, Firenze, Sansoni Editore, 1996, p-409 (R.R.).