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Fantastici microprocessori

Alcuni dei più noti film e libri di fantascienza sono ambientati in un chip.

di Leo Sorge

Questo articolo è pubblicato nel Fantafolio di Nigralatebra grazie ad un accordo con il mensile d’informatica PCUPgrade (www.pcupgrade.it)

Welt am Drah, il film TV di Fassbinder (1973)
dalla stessa storia (del 1964) che genererà
Il tredicesimo piano

Oggi la conoscenza è codificata nel software e negli archivi, ma senza un esecutore autonomo la competenza resta confinata allo scripta manent. La vera rivoluzione tecnologica dei giorni nostri è senz’altro il microprocessore, che è appunto l’indefeso esecutore di compiti preprogrammati. Al di fuori del mondo informatico, però, la parola microprocessore quasi non esiste, generalmente soppiantata dal più generico chip, che poi sui quotidiani (italiani) spesso diventa icona della modernità e rappresenta tutto, anche Internet.

All’argomento abbiamo dedicato un libro, Cheap Chips: la storia dei microprocessori da Atlantide ai nanotubi, del quale su http://www.iter.it/connoff_palmari.html sono disponibili gratuitamente indice e capitolo 5, mentre una versione ironica del capitolo su Star Trek è online su Nigralatebra (http://www.nigralatebra.it/archivio/file17/stchips.htm).

Molti materiali sono rimasti fuori da quel lavoro; tra questi una breve analisi di quanto il microprocessore facesse parte dell’immaginario comune anche prima che esistesse nella realtà.

Di questa realtà non si sa nulla. A nostro avviso sono due i motivi: la mancanza di divulgazuione scientifica specifica e la superficialità con la quale gli organi di stampa confondono tutto nel monosillabo chip. Soprattutto, chip è parola breve, che sta bene nei titoli: quasi quanto pc, che è una sigla poco accattivante. Il chip è recentemente uscito dai laboratori ed è etrato nel più generale mondo di tutti i giorni. I laboratori non sono l’unico ghetto nel quale rinchiudere scienza e tecnologia: c’è anche la fantascienza, parola italiana in buona parte ma non del tutto modellata sull’originale inglese, science fiction. Spesso la fantascienza ha provato a descrivere mondi e tecnologie future; spesso ha dato forme e sostanza ai computer. Qualche volta queste realtà si sono accavallate, mettendo in diretto contatto quello che succedeva all’interno delle unità di elaborazione e quello che accadeva nel cosiddetto mondo reale.

Anche senza arrivare al cyberpunk e alla virtualità -fenomeni degli anni ‘80 e ’90- i rapporti tra reale e calcolato si sono intensificati nella letteratura di genere. Il computer diventa personale e quindi prende forma e sostanza sulla scrivania, anziché essere un mainframe centralizzato allocato negli Inferi.

Ma le storie che ci vengono presentate sono plausibili alla luce delle regole del computer? Come è possibile che scrittori non sempre informatici scrivano per pubblici per lo più non informatici storie perfettamente calate in una realtà informatica? Guardando bene i collegamenti interni del soggetto e le immagini spesso si scopre che l’ambientazione è diversa, che pesca tra più modelli di elaborazione. Talvolta, addirittura, ci troviamo direttamente all’interno di un microprocessore! E magari l’autore non se ne rende neanche conto.

Fin dal capostipite degli effetti speciali 3D [nel 1982, anno di uscita di questo film, già c’erano stati film con FX, ma bidimensionali], Tron (scritto e diretto da Steven Lisberger), si vive in un mondo di semiconduttori. Il cattivo è MCP, il Master Control Program, evidentemente un software parte del sistema operativo. Le scenografie identificano immediatamente piste di silicio, e gli sfondi mostrano comunicazioni ottiche o elettroniche che nulla hanno a che vedere con le geometrie di una scheda madre o di un hard disk. Le stesse immagini bidimensionali che volteggiano sullo schermo sono maschere da porre sui wafer per deporre o grattar via materiale semiconduttore.

Un film più recente che esplora la stessa tematica è Il tredicesimo piano (www.thethirteenthfloor.com), diretto da Joseph Rusnak che si presenta anche come coautore insieme a Ravel Centeno-Rodriguez. Come scrittori e/o informatici entrambi sono scarsucci, perché –nonostante il film sia del 1999- usano una tecnologia altrettanto vecchia di quella immaginata dal vero autore del testo, l’americano Daniel Galouye, che nel 1964 (40 anni fa!) scrisse Simulacron 3. Per tempi e modi l’azione si svolge evidentemente all’interno di un single-chip computer, ovvero interamente in semiconduttore, magari connesso ad una rete di altri chip. Nel 1964 Galouye non poteva saperlo: il primo microprocessore ufficiale è del 1971! Ciononostante la scena, ripensata nel 1999, si sviluppa in una sala di immensi server. Da questo libro nientemeno che Fassbinder, già nel 1974, trasse il film TV Welt am Draht (Il mondo sul filo).

Com’era auspicabile, più recentemente la fantascienza ha parlato di microprocessori in maniera più diretta. In Permutation City (1994), un romanzo ancora non finito sul grande schermo, l’australiano Greg Egan immagina una complessa tecnologia basata sull’esecuzione di automi cellulari su una rete planetaria che però non eroga connettività ma potenza di calcolo, com’è per il progetto Seti o per altre iniziative analoghe. Nonostante il sottotitolo originale dell’opera sia Ten million people on a chip, quindi con esplicita citazione del temutissimo monosillabo, la complessa ed affascinante realtà ipotizzata dal geniale scrittore esplicita la nozione di tempo soggettivo, per cui potrebbe benissimo non esistere nel cosiddetto tempo reale: la soluzione è quindi di tipo software, e non hardware. La visione di Egan è un must per chiunque s’interessi sia all’informatica che alla fantascienza.