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SCIENCE FICTION "SUI GENERIS"

di Renato Pestriniero

Fantascienza italiana: Pestriniero dice la sua, Ditelo con la science fiction, Considerazioni sopra una naturale dissociazione nell'ambito della science-fiction italiana e Science-fiction sui generis sono tre saggi scritti da Renato Pestriniero negli anni passati. Insieme ne esce fuori un inedito quadro pennellato sull'argomento della fantascienza italiana che tanto appassiona noi di Nigralatebra.

Noi pubblicheremo integralmente sul Fantafolio la serie di saggi, per poi farne un'altra area fissa di Nigralatebra (LS).

Nel numero scorso: Ditelo con la Science Fiction

C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d'antico.

Arrivava a questa conclusione il nostro buon Giovanni Pascoli mentre se ne stava col naso all'insù a guardare l'aquilone. L'associazione mi si è presentata mentre stavo col naso all'ingiù a leggere un articolo apparso su Panorama del 16 Giugno 1991 ("Ridotti in genere"). A essere precisi, la sensazione di novità antica non è scaturita soltanto dall'articolo di cui sopra, però esso ha contribuito molto, tanto da spingermi alla macchina per scrivere.

Da alcuni mesi avevo letto cose anomale, altre le avevo sentite direttamente e indirettamente, e altre ancora mi avevano fatto pensare che forse era il caso di intervenire: tutte tessere di un unico quadro musivo che però rimaneva obnubilato sullo sfondo. Insomma, che si diceva in quell'articolo? Si parlava di letteratura di genere. Roberto Barbolini faceva rilevare come il romanzo e il racconto di genere avessero preso il volo e che oggi, per la prima volta, essi godevano di uno statuto rispettabile. Nello stesso articolo Oreste del Buono rincarava la dose affermando che oggi "c'è una nuova consapevolezza tecnica da parte degli autori italiani di genere". Massimo Moscati aggiungeva che "è ora di smascherare l'inganno di una cultura fatta per un lettore passivo da autori sterili che non scrivono ciò che vorrebbero leggere" riferendosi a una filosofia letteraria che, con la puzza sotto il naso, sospetta chi scrive poliziesco, rosa, horror eccetera, e "incarna ciò che non siamo".

Fino a qui l'articolo mi aveva incuriosito senza però toccarmi più di tanto. Cominciai a rizzare gli orecchi nel leggere che "il genere ha tutte le potenzialitè del romanzo tradizionale, con qualcosa in più: un elemento fisso che garantisce in partenza il lettore su quello che troverà nel libro. E poi, forse solo il fantasy o la science fiction sono ancora in grado di porre quei problemi filosofici ed esistenziali che il romanzo affrontava ai tempi di Dostoevskij". I miei orecchi erano ritti per due ragioni: prima per le parole apparse su una testata ad alta tiratura e non appartenenti alla serie "roba da fantascienza"; poi perché a dirle era Ferruccio Parazzoli, direttore degli Oscar Mondadori. Ma non ero ancora arrivato alla fine, dove il critico Graziano Braschi, riferendosi a quella che finora è stata definita 'paraletteratura', afferma che "non si può ancora parlare di una vera e propria scuola italiana, ma indubbiamente vi sono delle buone premesse, soprattutto per il giallo e l'horror".

Da quanto sopra emergono tre elementi che a mio avviso meritano alcune puntualizzazioni e alcuni commenti. Essi sono:

- SCHIZOFRENIA VALUTATIVA

- PASSIVITA' INTELLETTUALE

- COLLOCAZIONE DELLA SCIENCE FICTION

Vediamoli in maniera organica, seppur separatamente, riprendendo anche alcune opinioni che avevo già espresso in ordine sparso.

SCHIZOFRENIA VALUTATIVA

La prima sensazione che, chi vive la science fiction, prova nel leggere le parole di Parazzoli è senza dubbio di soddisfazione. Viene subito di pensare: vuoi vedere che è arrivata la volta buona e qualcuno ai piani alti dell'editoria comincia a parlare di contenuti lasciando finalmente da parte la carta colorata dell'involucro? Andiamoci piano. Ben vengano le parole di Parazzoli e di quanti altri vorranno affiancarglisi, non sarò certo io a rifiutare o snobbare dichiarazioni del genere annunciate da testate che tirano oltre mezzo milione di copie. Però, appunto perché appartengo a coloro che, nell'ambito del fantastico, la science fiction la vivono, mi corre l'obbligo di frenare l'entusiasmo. Mettiamo su un piatto di un'ipotetica bilancia le opinioni di certi intellettuali e di qualche movimento illuminato. Sull'altro piatto mettiamo la marea di 'roba da fantascienza', 'parliamo seriamente senza fare della fantascienza', 'questa è realtà non certo fantascienza', il tutto elargito a piene mani da giornalisti, televisione, pubblicità e via mass-mediando. E' evidente da che parte penderà la bilancia. Poi, di tanto in tanto, salta fuori un parere, una dichiarazione da parte di qualche nome di spessore, e la science fiction viene proiettata a livelli tali da portare sconcerto sia tra gli addetti ai lavori - i quali provano un senso di fastidio nel trovarsi improvvisamente di fronte a elogi sperticati per poi essere risistemati nell'oblio - sia tra i non appartenenti agli addetti ai lavori ma che hanno rapporti con la science fiction unicamente come lettori casuali, appassionati, collaboraboratori saltuari - i quali comprensibilmente potranno chiedersi: ma insomma cos'è questa fantascienza che esiste in Italia da almeno mezzo secolo, viene data per morta a cicli regolari e regolarmente rinasce dalle proprie ceneri, della quale tutti parlano usando questo ambiguo e buffo neologismo nelle occasioni più disparate?

Alcuni potrebbero anche chiedersi: come mai il termine 'fantascienza' viene usato dal travet come sinonimo di sciocchezze con beota sufficienza, viene accantonato con un'alzata di spalle dal critico che conta, e contemporaneamente lo si trova in tesi di laurea e affiancato a Dostoevskij? Allora, questa 'fantascienza' non sarà tempo di inquadrarla un po' più seriamente, in bene o in male, e comunque dare a questa "cosa" una fisionomia consolidata anziché continuare a sbatterla da una parte al l'altra, innalzarla o abbassarla in picchi esagerati, non veri, che si staccano dalla linea della riconoscibilità in cui risiedono i fenomeni appartenenti al nostro quotidiano? Nella sua espressione di "cosa" scritta si deve o non si deve intenderla come corrente letteraria? Come mai -potrebbe continuare a chiedersi qualcuno di quelli che non appartengono agli addetti ai lavori- dopo quasi mezzo secolo è ancora diffusa un'immagine di essa ambigua, bastarda e schizofrenica?

Si sa che ogni prodotto acquisisce nel tempo la propria caratteristica, il proprio peso, la propria forza attraverso chi lo propone e chi ne fruisce. E' altrettanto chiaro che, se viene deciso di lanciare un prodotto, chi lo propone ha tutto l'interesse a farlo nel modo migliore altrimenti sarebbe una contraddizione in termini; nel divenire c'è lo sforzo costante di migliorarlo sia per vincere la concorrenza sia per imporsi su un mercato sempre più vasto.

Nel campo preso in esame abbiamo una situazione del tutto particolare perché la science fiction è un prodotto che non ha concorrenti, in quanto la sua essenza è esente da limiti e può spaziare ovunque. Questa posizione di privilegio (ma non sarà anche la sua debolezza?) -che ogni imprenditore andrebbe a Lourdes per ottenere- è stata vanificata proprio da coloro che, ab origine e poi nel tempo previsto per il consolidamento dell'immagine, avevano i mezzi adeguati per proporla ad hoc. L'input ci era venuto da oltre oceano: sarebbe bastato capire a fondo le enormi possibilità da esso offerte, mettere a dimora i semi di una produzione parallela ma diversa dando fiducia a chi credeva nel movimento, e offrendo opportunità di carattere economico e di immagine a operatori non direttamente interessati ma che potevano esprimersi attraverso il suo medium multiforme, vale a dire uomini di cultura, scrittori del mainstream, scienziati... Ci avrebbe pensato il tempo e il meccanismo universale dell'entropia a creare la sottoproduzione, le brutte copie, la spazzatura, ma nel frattempo questa nuova entusiasmante chiave di interpretazione del mondo avrebbe consolidato spessore e immagine, avrebbe impostato un discorso di tutto rispetto e avrebbe mantenuto la propria presenza, nel tempo, interpretandolo adeguatamente.

Purtroppo ciò non è avvenuto, e oggi, dopo quasi mezzo secolo, ci troviamo ancora a dibattere su cosa si deve intendere per 'fantascienza'. Proprio come "Urania" ha proposto l'anno scorso ponendo questa domanda ai lettori. Alla quale domanda mi sono sentito obbligato a rispondere in quanto essa toccava un tasto per me molto sensibile, non tanto per la domanda in sé, quanto perché appunto la si vedeva riproposta ancora oggi dall'editore di science fiction italiano per antonomasia che, con "Urania", è presente sul mercato da trentacinque anni.

Niente di male se questo può servire a mantenere un po' di vitalità sopra! tutto a favore di chi si presenta in campo, nel ricambio generazionale, come autore o come fruitore. Peccato che il dibattito si sia risolto nell'arco di un paio di numeri.

Per chi non avesse letto il mio intervento, dicevo in breve che alcune opere appartenenti a una certa corrente di science fiction devono essere considerate ormai letteratura tout court in quanto riescono a far riflettere, approfondire e speculare costruttivamente sulla posizione dell'uomo sia di fronte al mondo sia di fronte a se stesso quale artefice della realtà in cui è destinato a vivere. Le situazioni socio-politico-confessional-esistenziali si manifestano e si sviluppano in misura sempre più vorticosa e frastornante, e soprattutto dimostrano quanto presto diventi realtà la speculazione più spinta. Per questa ragione sono sempre più numerosi i romanzi mainstream che hanno legami con la science fiction sociologica. Mai quanto ora un medium letterario come la science fiction sociologica ha la possibilità di dire qualcosa di nuovo e di impegnato in modo accattivante.

Gli scenari che intravediamo tra le fessure delle notizie sui quotidiani sono fonte inesauribile per proporre opere valide sia letterariamente che di contenuto.

Chi sente l'urgenza, la necessità di denunciare problemi attuali e futuri dell'uomo al di sopra di vincoli faziosi e al di fuori di schemi desueti, è obbligato a farlo attraverso l'ottica della science fiction (concetto che avevo precedentemente sviluppato in 'Ditelo con la science fiction' su NOVA SF no.13, Perseo Libri, Bologna, 1988 ripubblicato sul Fantafolio n. 23, ottobre 2002). Alcune di queste opinioni avevo avuto modo di esprimerle anche nell' intervista apparsa su "Urania" 1144 del 13 Gennaio 1991, vale a dire cinque mesi prima che la visione di Ferruccio Parazzoli venisse riportata su Panorama. Tornando all' iniziativa di "Urania", nella seconda parte dell' intervento vagheggiavo (ovviamente per provocare un dibattito il più allargato e variegato possibile) di non usare più il termine 'fantascienza' quale referente per tutta la produzione di science fiction, ma tenerlo valido solo per quella porzione di prodotto nella quale il lettore-massa identifica la 'fantascienza' o è stato costretto a identificarla. Purtroppo il dibattito non fu né allargato né variegato, e l'edi toriale di "Urania" 1147 chiudeva la porta precisando:

1. Non è una questione di giochi di parole o di etichette ma di qualità;

2. Se ci fosse il Grande Romanzo Italiano di science fiction sarebbe già stato pubblicato con successo pari o quasi a quello ottenuto da "Il nome della rosa";

3. La fantascienza non è mai stata tanto popolare come oggi da un punto di vista non solo commerciale ma di costume e di influenza sulla vita sociale; la pubblicità è a base di omini verdi;

4. E' giusto che gli omini siano verdi;

5. E' inutile usare il termine 'science fiction' che, oltretutto, da noi è conosciuto da quattro gatti;

6. Prima o poi uscirà il best-seller di fantascienza italiano il cui autore potrebbe essere la sigla F&L o un Roberto Vacca o un Piero Angela, ma anche Lino Aldani o Renato Pestriniero o Piero Prosperi, a patto che questi ultimi lascino le crociate e scrivano con grinta.

Va bene. Le risposte a questi punti le avevo già pronte il giorno successivo e spedii la lettera. Ma il servizio era considerato proprio chiuso a tutti gli effetti e quindi la mia lettera esplicativa non ebbe la ventura di vedere la luce. Ci fu solo l'opportunità di uno scambio informale di opinioni fra me e Giuseppe Lippi in quel di San Marino durante la 17° Convention annuale, incontro che peraltro confermò le rispettive posizioni. Giuseppe ed io abbiamo una lunga militanza e viviamo la science fiction e il fantastico in modo viscerale, non solo e semplicemente come hobby o mestiere. Il fatto è che consideriamo la materia da due punti di vista diversi pur sforzandoci entrambi di divulgarla al meglio. Ma qual è la sua immagine migliore? E' qui il punto dove le nostre strade si biforcano. A quell'editoriale avevo risposto così:

1. Entrambi parliamo di qualità, però c'è chi questa qualità la cerca all'interno di ciò che viene considerata 'fantascienza' dalla maggior parte dei fruitori, e c'è chi la vede progressivamente estraniarsi da un cliché che si sostiene per inerzia. Non è mia intenzione fare crociate, giochi di parole o proporre etichette. A questo proposito, per non tirarla per le lunghe, rimandavo all'intervista che proprio "Urania" mi aveva fatto, apparsa nel numero 1144. La qualità, di forma e di contenuto, l'ho sempre considerata come punto di partenza per impostare un discorso valido. Dipende sempre da cosa si intende per science fiction di qualità. lo la intendo un prodotto che possa finalmente togliere di bocca frasi del tipo 'roba da fantascienza' oppure 'siamo seri, non facciamo della fantascienza".

2. Senza tornare nel merito di ciò che è necessario perché un romanzo sia un buon romanzo, dal punto di vista stilistico -e di contenuto, è chiaro che decidere se il prodotto sia o meno valido spetta all'editore o al curatore. Si fa presto a dire 'se ci fosse il Grande Romanzo Italiano': grande per chi? Un plot che potrebbe essere interessante per un editore può non esserlo proprio per quello a cui, guarda caso, mando il dattiloscritto. Oppure il lavoro può non essere valido in parte, forse quell'unica parte precedentemente considerata valida da altro editore. Alzi la mano chi non ha mai sperimentato questo frustrante palleggio, impossibilitato, per mancanza di status, a imporre un discorso che magari più tardi vedrà elaborato dal solito John Smith e presentato con squilli di trombe. Obiettivamente, bisogna dire che il materiale con le carte in regola proposto in lettura rientra in una percentuale molto bassa (dirigo anch'io una rivista di letteratura fantastica e ne so qualcosa). Schematizzata al massimo, la produzione sottoposta a valutazione potrebbe dividersi in quattro categorie:

a) lavori con idee brutte e scritti male

b) lavori con idee valide ma scritti male

c) lavori con idee brutte ma scritti bene

d) lavori con idee valide e scritti bene

Eliminiamo subito la prima e l'ultima per ragioni ovvie e opposte. Da coloro che appartengono alle categorie b) e c) bisognerebbe sforzarsi per ricavare, attraverso un'operazione di editing, tutto il buono possibile. Questo è un lavoro che appartiene a curatori ed editori; solo così, nel tempo, si potrà contare su un avvicendarsi di autori motivati e in grado di offrire opere valide. Ma continuo a chiedermi: al giorno d'oggi, malgrado le dichiarazioni di disponibilità, quanto viene veramente dedicato a questa operazione 'culturale' allorché si tenga un occhio ai profitti e l'altro al budget? Ecco perché un editore che presenta come 'operazione culturale' il suo programma editoriale, dimostrandolo con i fatti, è da tenere in evidenza, cercando di consolidare la collaborazione tra chi produce e chi diffonde, unica strada in Italia per controbattere con armi valide lo strapotere del prodotto d'importazione. E' deludente vedere che una politica del genere, illuminata e protesa al futuro, venga adottata da appena un paio di case editrici specializzate medio-piccole, affrontando giorno dopo giorno sacrifici tali da non permettersi mai di abbandonare l'ipotesi di chiudere bottega. Dove sono i fatti che seguono le auliche parole pronunciate ad ogni occasione di profitto da parte di altre case editrici, quelle che manipolano budget miliardari, dei quali sarebbe sufficiente appena uno scampolo per dare ossigeno e spinta, se veramente ci fosse la volontà, a un movimento con tutte le carte in regola per affrontare, forse non subito, di certo in un prossimo futuro, il prodotto d'importazione?

 

3. "La fantascienza non è mai stata popolare come oggi, a livello di costume e di vita sociale". Che dopo tanti sforzi e tanti anni un miglioramento generale nell'opinione esterna verso ciò che in Italia viene definito 'fantascienza' si sia visto, questo è indubbio; se n'è accorto anche il mainstream letterario mettendo in campo elogi financo eccessivi. Anche ambienti didattici ufficiali se ne sono accorti, e hanno usato la science fiction per esami di maturità (di questo parlerò più avanti). Ma, ahimé, sono passati trentanove anni da quel 10 Ottobre 1952 quando il termine 'fantascienza' apparve per la prima volta su 'I Romanzi di Urania'! E, rispetto al tempo trascorso, il cambiamento in positivo consolidato nel fruitore-massa non è stato certo proporzionale, perché d'accordo sulla presenza della science fiction a livello di costume e di vita sociale, ma quale science fiction? La risposta è già nello stesso editoriale di Urania: quella degli omini verdi, delle saghe galattiche, di mostri e di lupimannari. E con questo il discorso torna al punto 1).

Se poi viene sostenuto che:

4. "sia giusto mantenere gli omini verdi", allora credo che questa dichiarazione stabilisca chiaramente il confine tra i due intendimenti. Di recente, in altra sede, ho rilevato come si debba prendere atto della diacronia maturata in questi anni: la visione che una parte degli addetti ai lavori ha nei confronti della 'fantascienza' è ormai del tutto estranea alla visione del fruitore-massa. All'interno del movimento si è creata, col tempo, una corrente lenta ma costante di emancipazione, di affinamento stilistico, di tematiche; in altre parole si è verificata una sorta di rivoluzione silenziosa che è rimasta inavvertita, o tutt'al più appena notata, dal fruitore-massa, quello per il quale il marziano è ancora verde, colui che la science fiction la vive unicamente nella sua dimensione ludica ed escapista.

E' ormai assodato che gli elementi di questo benedetto neologismo sono desueti: il peso che la scienza aveva in esso alle origini non è più lo stesso, non ha più lo stesso significato. Se adesso si vuole fare qualcosa di serio, non è necessario inventare marchingegni che destino meraviglia, ma speculare su ciò che i marchingegni di cui ci siamo contornati e con i quali ci siamo costretti a vivere, determinano su di noi a livello fisico, psicologico, sociale, etico, religioso e avanti sfaccettando.

Per quanto riguarda la componente 'fanta', se non bastavano la cacofonia e l'immagine del marziano verde, ci si è messa pure la pubblicità dell'aranciata, che con la sua onnipresenza è riuscita a creare un riflesso condizionato ogni qualvolta queste cinque lettere vengono pronunciate insieme. Non basta: da qualche tempo si sono aggiunti alla bibita gasata anche i fantasciroppi, e chissà che in un prossimo futuro non vengano gratificati di questo termine accessori igienici di uso quotidiano al fine di esaltarne proprietà avveniristiche.

A questo punto direi di lasciare senz'altro al marziano il suo bel colore verde pisello perché, dopo tanti anni, è fatica inutile voler sradicare un topos alimentato continuamente, e coloro che non nutrono affinità elettive con esso o altri topoi marvelliani o mazinghiani, non debbano sentirsi obbligati a mantenere parentele ormai dissolte, e, con decisione, tolgano dalla propria porta la targhetta poiché quella fantascienza non abita più lì.

Intendiamoci bene, non intendo distinzioni fra prodotto di serie A e di serie B, ma proprio due espressioni diverse, due modi di vedere e di parlare che sono venuti a crearsi naturalmente nel divenire, due linguaggi che hanno forgiato altre grammatiche e altre sintassi. Ognuno è libero di raccontare quello che vuole e come vuole, ma ognuno è altrettanto libero di sentirsi appartenere a una filosofia anziché a un'altra. Ripeto, non è un discorso di élite, ma un tentativo per abbinare il contenente con il contenuto, l'involucro con il prodotto per il quale viene identificato: se acquisto marmellata di ciliege perché sull'etichetta del barattolo è scritto così, pretendo di trovarci le ciliege; se trovo solo il colore rosso, il minimo che possa fare è cambiare marca. Quindi ritengo doveroso, da parte di chi fa le scelte, prendere attenta mente in considerazione la necessità di quegli autori e lettori italiani che si accostano alla science fiction naturalmente ma diversamente perché non riescono più a scrivere in chiave di routine e non accettano più di leggere quel tipo di science fiction, perché si tratta di persone che l'amano ben più che non i fautori del marziano verde.

5. Saranno anche quattro gatti coloro che in Italia conoscono il termine 'science fiction' ma non sarebbe tempo di emanciparli un po'? E poi, a guardar bene, che dire dell'uso e abuso che la TV sta facendo del termine 'fiction'?

6. Penso anch'io che prima o poi uscirà il Grande Romanzo Italiano di science fiction, l'ho detto anche nell'editoriale di "Dimensione Cosmica" no.15 (Marino Solfanelli Editore, Chieti, 1989), dove mi dichiaravo convinto che il nostro turno verrà. E' morto Sergio Leone e quelli che venivano snobbati come spaghetti-western adesso sono cult-movie; hamburger e hot-dog stanno ricevendo colpi ai fianchi dalla dieta mediterranea; abbiamo imposto un jazz che parla addirittura napoletano; abbiamo lavorato su un altro simbolo USA fino a portare i jeans nei défilé dei nostri stilisti; il vecchio Yellow Kid, altro topos d'oltre oceano, è stato trasformato e accettato come vera arte grazie a Battaglia, Pratt, Toppi, Crepax, Manara, Pazienza... Sono tutti aspetti di una assimilazione mediata che lentamente ma costantemente si è imposta e consolidata fino a far parte del nostro quotidiano. Così sarà anche per la science fiction italiana, e i suoi periodi verranno studiati come il divenire di un'espressione letteraria di questo secolo. Ma non sarebbe male sforzarci un po' per anticipare i tempi naturali.

E per quanto riguarda i nomi, pensavo proprio a personaggi come Roberto Vacca, e addirittura mi spingevo, collegandomi a certi nomi di scienziati di lingua inglese, a un Carlo Rubbia o una Rita Levi Montalcini... peccato che la science fiction italiana si porti appresso quel bagaglio semantico che le è stato messo sulle spalle all'inizio e mai tolto, per cui non posso non pensare a quale sarebbe il risultato se uno di questi nomi realizzasse veramente il progetto di scrivere un romanzo di science fiction tout court: la Critica con la C maiuscola farebbe sperimentati giochi di prestigio e di equibrismo per descrivere la fantascientificità dell'opera senza usare la parola 'fantascienza'.

(2- continua)