Nigralatebra (logo)Il Foglio di Fantafolio

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Remota nel golfo di Napoli giace la città senza nome, diroccata e sconnessa, le basse mura quasi nascoste dalle sabbie di ere innumerevoli. È di tale luogo che sognò Abdul Alhazred, il poeta folle, la notte prima di cantare il suo inesplicabile distico: Non è morto ciò che in eterno può attendere, non è muto ciò che non può cantare.

Quel giorno, come in tutti i giorni dell’Eternità, una pallida luce iniziava la sua lenta penetrazione. Inizialmente forniva alla retina dei colori pesanti, illusori, falsi. Le forme, già distinte, davano però una chiara indicazione. Era un oggetto alieno, certo, a qualsiasi arte o letteratura note alle persone sane ed equilibrate, ma lo riconoscemmo: era la sfogliatella, il disgustoso emblema dei divoratori di cadaveri proveniente dall’inaccessibile Leng, nell’Asia Centrale.

La sua presenza in via Chiaia era un inequivocabile monito negativo. L’Osvaldo si sentì gelare il sangue nelle vene: tutto sommato veniva da Torino, città magica ed esoterica per eccellenza, che si diceva essere la Thot-Ryn fondata quasi quattromila anni prima da Bahtistoth, il faraone sempre all’attacco scacciato da Monntl, l’Hyksos nano che aveva conquistato l’Egitto, dopo la vittoria militare che aveva frenato l’incedere del potentissimo Treh-z-gghe.

E’ qui che si trovava, disperato, l’Osvaldo. La sua missione era chiara: trovare Maria la tempestosa. Il suo mittente, il mistico Gennaro ‘o zozzone, era stato chiaro: solo lei avrebbe potuto liberare le forze degli Antichi che a suo dire alloggiavano all’interno di Osvaldo. Gennaro possedeva una vasta biblioteca di libri rari su argomenti occulti, per la maggioranza in arabo classico; ma il libro infernale dal quale aveva letto il nome della tempestosa era scritto in caratteri che non Gennaro non aveva mai veduto.

Aliena a questo mondo, la creatura indicata dallo zozzone aveva la forma di un cane alato che sta per spiccare un salto, o forse di una sfinge dal muso canino. “E’ l’unica che fotte pe’ ‘na schifezza di cinquemila lire, chi t’o fa fa…”

D’altronde Osvaldo quello aveva a disposizione. E Gennaro era l’unico che poteva aiutarlo a trovare “‘na zoccola” che a cinquemila lire facesse con lui del sesso orale.

Ad onta della luminosa mattinata, la giornata era stata piovosa, e i tempi di lavoro si erano allungati. Poche ore separavano Osvaldo dal treno di ritorno. La voglia era salita, e non solo quella; ma i soldi erano rimasti gli stessi. Appena vista in lontananza la strada, le acque di tutti i cieli oscuri si erano rovesciate sul povero Osvaldo e sui suoi desideri. Appena individuata la porta capì che doveva essere sua, che quello era l’unico logico tesoro riservatogli per l’immediato avvenire. Per un tempo che gli parve infinito, Osvaldo rimase a sciogliersi in una pioggia fredda ma bollente, mentre percuoteva con incerta violenza l’interno della nicchia che alloggiava il battente. Alla fine il tempo ricominciò a scorrere così come lo conosciamo noi.

“Chi cercate?”, dice una voce antica. “La tempestosa. Ho un abboccamento con lei”, dice divertito Osvaldo, che aveva impiegato svariate ore a scaturire questa battuta dai suoi offesi neuroni. “Ah, siete quello del nord? Trasite, trasite! Marì sta n‘coppa, favorite!”

Oscura com’era, la stanza di Maria sembrava il museo di Belfagor, tradito solo dagli odori di candele dallo strano profumo. Il calore, ancorché puteolente, aveva rialzato le quotazioni di Osvaldo. La porta era socchiusa quel tanto che bastava. “Vieni, caro, vieni…”, sussurra l’ancella. “Vedi che tempo?”, e in un sol colpo apre la porta-finestra sulla strada. Il freddo torna sovrano. “Mi chiamano Maria la tempestosa”… il tono e l’accoppiamento avevano ghiacciato il sangue nelle vele di Osvaldo. L’ancella chiude la porta-finestra. Improvvisamente, uno squarcio dilania la struttura stessa dello spazio-tempo. Sbattendo ciò che rimane delle palpebre, il nostro mette lentamente a fuoco l’abat-jour il cui interruttore era scosso da innaturale tremito dall’insano potere della zoccola, pardon ancella. I lampi si susseguivano irregolari nel ritmo e nella durata. “Uhu, che lampi! Che lampi! CHE LAMPII!”, urlò l’invasata. “Sono la tempestosa….”. Osvaldo non sapeva che pesci prendere. Maria sì, e voluttuosamente gli si avvicinò, flippando fuori l’arnese.

Il corroso e decrepito levìta, con le sue immonde cianfrusaglie appese, sorrideva fra i ciuffi della barba incolta. Pensieri di altri mondi suscitarono nel cervello di Osvaldo strane e inquietanti memorie. Le cinquemila lire non sembravano più un affronto per lei; la profezia di Gennaro, non più una pazzia per lui.

Subito, eccitata come un’ingorda vestale, Maria passò alla fase successiva. “Che pioggia! Cheee… pioggia!”, fa l’oscena creatura, smodatamente desiderosa di accelerare i tempi. E dimenandosi scatena a comando nuovi, violenti scrosci. “Ma la finestra era chiusa”, pensa l’Osvaldo, mentre alcuni lapilli, assurdamente bollenti, gli raggiungono le parti prima esposte dalla vestale e solo parzialmente coperte dalla… barba. “Sono la tempestosa!”, ripete ossessivamente l’ignobile conato di altre religioni.

Osvaldo, improvvisamente e solo allora, comprese l’innaturale natura della pioggia. Si rese conto che le forze in gioco erano del tutto aliene al suo mondo, e per un’ultima volta pensò al pegno della sua umanità (le cinquemila lire). Un attimo di titubanza offrì al crogiuolo di anime perse l’occasione di un’altra mossa. “SONO LA TEMPESTOSA!”, continuava a prorompere l’inqualificabile essenza, mentre si spogliava delle ultime propaggini della sua mimesi umana.

Le Potenze capaci delle più grandi malvagità ci appaiano in forma di spiriti familiari d’aspetto repellente, ma spesso si tradiscono per le loro emanazioni. “LA TEMPEEE…” E Maria era indiscutibilmente una di loro. “…STOOSA! Proòòt! LA TEMPESTOSAAA!! Prototoròt!”, emanò nella lingua degli Antichi, mentre la propaggine, sotto forma di mutanda, raggiungeva il nostro, e i resti corporali dell’ancella si accovacciano in posa fetale.

Era chiaro: si avvicinava il clou, del quale lui era la vittima sacrificale. “E adesso.. adeSSSo…” Un veloce rumore suona inatteso: “Ziìpp!”, e all’un tempo si ricompongono la patta e l’orgoglio dell’Osvaldo. “Adesso me ne torno in albergo”, dice serio il nostro.

“Ma come… COME… SONO LA TEMPESTOSA!” prorompe irosa l’anima dannata… “Sì, la tempestosa! Fosse solo quello! Con questo tempo… di merda non c’è altro da fare che tornarsene a casa!”.

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