Nigralatebra (logo)Il Foglio di Fantafolio

Il futuro visto nell'Italia degli anni '50 e '60

di Michele Piccolino

La percezione e la previsione del futuro, inteso come immaginario fantascientifico, sono indissolubilmente legate alla visione che di questo, a partire dal 1952, Urania offre ai lettori italiani.

Spetta alla fantascienza, quale genere narrativo popolare, il compito di offrire ipotesi e prospettive per un futuro più o meno remoto nel tempo. Certo, non è l'unico scopo della SF, ma in Italia, almeno agli inizi, l'unica nobiltà che s'intravede in questa forma di paraletteratura consiste proprio nell'anticipazione, cioè nel prevedere, immaginare, proporre gli scenari di un futuro che si avverte, proprio per questo, sempre più vicino.

Prima di Urania non si poteva parlare nemmeno di "fantascienza". Al più, di narrativa di anticipazione. Le opere di Verne e di Wells, oltre a quelle del filone immaginifico di Salgari, avevano formato generazioni di lettori. Mancava il neologismo che coniugasse la brevità di una definizione con la possibilità di un'immediata classificazione. Il genere, inteso come mare magnum in cui inserire opere difficilmente inquadrabili in maniera diversa, era quello "fantastico", che in modo diretto e immediato si contrapponeva al realismo anche avventuroso dell'altra produzione popolare.

Perciò, quando nel 1952, arrivò nelle edicole Urania l'immaginario e il mercato editoriale erano ancora vergini o quasi. Solo a partire da quella data nacque un'editoria italiana di genere fantascientifico con la quale, come per il giallo, venne identificato il genere stesso.

I soggetti delle copertine, affidate inizialmente a Kurt Caesar, andarono a formare, tout court, l'immaginario del futuro dei lettori e non solo: non bisogna dimenticare che gli albi di Urania erano affissi in edicola, offerti allo sguardo di tutti e non solamente degli appassionati.

Il futuro era visto secondo due linee di pensiero differenti: una "idealizzata" o "ottimistica; l'altra "catastrofica" o "pessimistica". Il primo filone si potrebbe definire quello de "l'epopea del razzo".

Nei primi anni, e per molti a seguire, l'immaginario della SF venne popolato di astronavi, per lo più razzi dalla forma lunga o affusolata se terrestri, dischi volanti se alieni, secondo una dicotomia abbastanza rigida. La classica space opera alla Van Vogt, Vance, Williamson la faceva da padrone, lo spirito di avventura era ancora la matrice preponderante.

La frontiera ultima dell'umanità era la conquista e l'esplorazione dello spazio e le immagini di questa nuova epopea dell'uomo riempivano la fantasia del pubblico. D'altronde era quasi inevitabile: la Terra non offriva più misteri, l'ignoto era oltre l'atmosfera terrestre.

La sfida a questa nuova frontiera appariva poi meno impossibile alla luce del galoppante progresso tecnologico di quegli anni. Si viveva, da un lato, nell'era atomica, ma, dall'altro, anche in quella di un crescente benessere. La televisione e gli elettrodomestici diventavano vieppiù dei compagni del quotidiano grazie al boom economico, la tecnologia si dimostrava amica e capace di esaudire i sogni dell'uomo comune, anche quelli di avventura.

La space opera appagava questo desiderio, con le sue minuziose descrizioni di tecnologie più o meno verosimili, di pianeti e di civiltà aliene fantasmagorici, di un futuro luminoso e prospero. Il razzo era il simbolo di questo sentire, veloce e slanciato nell'avvenire come gli anni che si stavano vivendo.

Ma gli anni '50 sono quelli della guerra fredda e della minaccia atomica. L'energia degli atomi alimentava, oltre alle prime centrali nucleari, anche le bombe che crescevano di numero negli arsenali delle due superpotenze. Lo spettro del conflitto atomico non veniva mai dimenticato.

Fiorì tutta una letteratura sulle conseguenze di una guerra nucleare su vasta scala, del fallout, sulla nascita di civiltà postatomiche. Le immagini dei funghi atomici nei deserti americani, delle rovine di Hisoshima e Nagasaki, dei corpi devastati dalle radiazioni rappresentarono degli autentici incubi ad occhi aperti. I b-movies di Jack Arnold alimentarono queste inquietudini e l'immaginario del futuro si popolò di mostri mutanti e di scenari nuclearizzati.

Il futuro spaventava perché terrorizzava la possibilità, assai concreta, che la realtà, in tempi per di più brevi, prendesse la piega catastrofica dello scontro dei blocchi mondiali. Le inquietudini del presente si riflettevano sulla visione del futuro, le paure scalzavano l'ottimismo tecnologico dell'era spaziale. La fantascienza rappresentava un mezzo per esorcizzarle, con il pretesto del racconto comunque fantastico proponeva ipotesi, quelle stesse che, nella vita di tutti giorni, non si aveva nemmeno il coraggio di avanzare. Uno dei naturali corollari di questa visione fu la paura dell'invasione.

La divisone del mondo conduceva a paventare la possibile invasione nemica. Dopo l'invasione dell'Ungheria del 1956 da parte dell'Armata Rossa la paura si fece ben più concreta, soprattutto per un paese come l'Italia, caratterizzato da una forte divisione ideologica e dalla presenza di un radicato partito comunista. Il contatto con l'alieno perse la sua valenza esotica, avveniva in casa propria, minacciava la vita di tutti.

Gli anni '60

Con il passare degli anni e l'infoltirsi della gamma di storie proposte dall'editoria si arricchì l'immaginario del pubblico italiano e, quindi, anche la visione che questo aveva del futuro. I temi si moltiplicarono, si sfaccettarono, le implicazioni che le originarie proposte offrivano diventarono più complesse e, volendo, più profonde e stimolanti. Gli spunti offerti dalla space opera e dalla paura della catastrofe atomica non vennero rinnegati o dimenticati, ma filtrati alla luce di una più matura sensibilità e arricchiti da una capacità immaginifica dai contorni decisamente più ampi e multiformi. Nuove visioni si aggiunsero alle precedenti e la frontiera dello spazio non rappresentò la più importante manifestazione dell'immaginario collettivo del futuro: all'outern space si sostituì una nuova e, forse, più inquietante frontiera, quella dell'inner space. Si ribaltò la prospettiva: dall'esterno all'interno, l'ignoto non venne più dallo spazio ma si manifestò direttamente nel quotidiano, nella mente e nel corpo dell'uomo moderno. Venne, così, la stagione della c.d. fantascienza sociologica.

Il progresso scientifico e tecnologico conosceva le sue regole e le sue conseguenze. Con il tempo, gli scrittori capirono che si poteva adoperare la metafora del futuro per lanciare uno sguardo obliquo con il quale inquadrare la nuova realtà che andava delineandosi. Le incongruenze, le contraddizioni di una società futura ben potevano essere lo strumento per stigmatizzare quelle del mondo presente. Inevitabilmente l'ironia e il sarcasmo fecero la propria comparsa sulla scena di una narrativa, quella di fantascienza, che magari non si prendeva molto sul serio, ma che trattava con assoluta serietà i le sue storie.

Allora via le astronavi, o comunque in numero assai ridotto, via gli scenari di pianeti lontani e misteriosi. Sulle copertine e nell'immaginario dei lettori campeggiavano figure di uomini, sempre meno umani.

Il cambio di prospettiva, per quanto profondo, non fu radicale. I vecchi temi restarono sempre presenti, ci mancherebbe, ma si sommarono a quelli della new wave, o si attenuarono.

Altro grande protagonista dell'immaginario futuristico fu il robot. Una sorta di simulacro dell'uomo, con la saga positronica di Asimov finì per assumere fattezze più che umane, pur nel rispetto di leggi robotiche diventarono un dogma con il quale giocare ad inventare storie.

Questa maturità di temi e strumenti narrativi andava supportata da un'adeguata rappresentazione figurativa. Opere complesse e sfaccettate, con temi inafferrabili e difficilmente sintetizzabili richiedevano una fantasia feconda abbinata ad una tecnica multiforme. Urania ebbe la fortuna di trovare, nel 1961, il perfetto interprete di questa nuova esigenza raffigurativa: l'olandese Karel Thole, il più grande illustratore del fantastico. I disegni di Thole diventarono la perfetta fotografia di un futuro che non era più fatto solo di dischi volanti, razzi e omini verdi.

Il futuro non fu più una faccenda semplice o ingenua, come semplici ed ingenue erano state le rappresentazioni che ne erano state fatte in precedenza, diventò un universo, complesso ed inquietante, vero al di là del fascino del mistero e dell'ignoto, della paura per l'imperscrutabile e l'insondabile.

Con l'evoluzione conosciuta nel corso degli anni '60, dopo l'anno zero caduto, nel decennio precedente, il futuro non fu più oggetto di previsioni, la componente di anticipazione della fantascienza rimase una tappa del cammino intrapreso dall'immaginario della società italiana, superata da tempo, che magari faceva anche sorridere per la sua naïveté.

Il futuro alimentò, come tutte le realtà, sogni ed incubi. Perché faceva parte del patrimonio immaginativo di tutti. Restarono gli appassionati e gli addetti ai lavori capaci di giocare e ribaltare i luoghi comuni di questo immaginario, ma poterono farlo solo perché una base consistente di persone le condivideva. Tutti avevano un'idea di futuro, ed era quella che la fantascienza gli aveva suggerito.